È cominciata la fase più critica per Israele. Dalla settimana scorsa una parte della tanto contestata riforma della giustizia voluta dal premier Benjamin Netanyahu è infatti al vaglio della Corte Suprema. Il Paese negli ultimi mesi è stato attraversato da un’ondata di manifestazioni senza precedenti. Milioni di persone hanno bloccato le principali città, aeroporti internazionali e centri d’affari per una questione che è destinata a decidere il futuro non solo della maggioranza conservatrice attualmente al potere ma anche dell’unico vero baluardo di democrazia in Medio Oriente

Presentata a febbraio dal ministro della giustizia Yariv Levin a nome di un governo che è stato definito il più a destra della storia di Israele e che, oltre al Likud di Netanyahu, include partiti nazionalisti e ultraortodossi, la riforma si occupa dei criteri di nomina dei giudici e dei poteri della Corte Suprema. Il piano del governo in una prima parte stabilisce l’aumento della quota riservata ai membri di estrazione politica all’interno della commissione che seleziona i giudici. 

La seconda parte interviene sul ruolo della massima Corte in un Paese in cui la mancanza di una Costituzione – sostituita dalle Leggi fondamentali – e un sistema unicamerale determinano la presenza di pochi veri contrappesi rispetto all’esecutivo. Le proteste maggiori della società israeliana riguardano in particolare il tentativo di smantellare la cosiddetta “clausola della ragionevolezza”. In base a tale prerogativa la Corte Suprema può abolire provvedimenti approvati dal parlamento, la Knesset, se ritenuti “non ragionevoli”. Netanyahu, alle prese con vicende giudiziarie e accuse di corruzione, intende quindi eliminare la “clausola della ragionevolezza” e introdurre un meccanismo che permetta alla Knesset di superare le decisioni della massima Corte con un voto a maggioranza semplice.  

La parte della riforma che stabilisce un ridimensionamento dei poteri della Corte Suprema è entrata in vigore a luglio e adesso, a seguito dei ricorsi presentati da associazioni della società civile, la stessa Corte è chiamata ad esprimersi sull’eventuale ripristino della clausola. Il premier prima di partire per gli Stati Uniti ha accusato chi protesta di allinearsi con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e con l’Iran. La reazione del centrista e leader dell’opposizione Benny Gantz non si è fatta attendere definendo “patrioti” i manifestanti. 

La visita di Netanyahu negli Usa dove ha incontrato anche l’imprenditore visionario Elon Musk arriva dunque in un momento delicato. Per la 37esima settimana di fila il 22 settembre, giorno in cui il premier si rivolgerà all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sono state annunciate nuove manifestazioni di protesta nelle principali città israeliane e in America. Non è ancora chiaro se il presidente Joe Biden, sin qui piuttosto diffidente nei confronti del governo di Tel Aviv, incontrerà Netanyahu alla Casa Bianca. 

Israele è ad un bivio. Persino i riservisti dell’esercito hanno espresso la loro contrarietà alle iniziative legislative del premier e della sua maggioranza con possibili ripercussioni sulla sicurezza di una nazione alle prese da sempre con minacce interne ed esterne. Alcuni ministri del governo hanno fatto sapere che non rispetteranno l’eventuale decisione della Corte Suprema di ripristinare la clausola di ragionevolezza. Tzipi Livni, ex ministro della giustizia e tra le contestatrici della riforma, dichiara che “la crisi costituzionale è già qui”. In un editoriale il quotidiano Haaretz parla di un Paese in attesa della sentenza più importante nella storia d’Israele.  

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