L’Iraq sta considerando di ampliare il ruolo della Nato nel Paese, a scapito di quello assunto dalla coalizione internazionale a guida americana.
I contrasti tra Usa e Iraq
Il rapporto tra Stati Uniti e Iraq si è deteriorato tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, quando il territorio iracheno è stato colpito da una serie di raid americani, condotti contro obiettivi iraniani e culminati nella nota uccisione di Qassem Soleimani (3 gennaio).
La reazione di Baghdad è stata molto dura, anche se a nulla è servita la decisione del Parlamento iracheno (5 gennaio) di espellere tutte le forze straniere dal Paese, comprese le circa 5.200 truppe statunitensi. Il 15 gennaio, infatti, la missione americana in Iraq ha ripreso alcune attività, incluse le operazioni contro l’Is. Non solo: nell’incontro bilaterale del 22 gennaio scorso, il presidente americano, Donald Trump, e il suo omologo iracheno, Barham Salih, hanno concordato il proseguo della partnership economica e militare tra i due Paesi.
Un atteggiamento più conciliante da entrambe le parti, dovuto, probabilmente, alle conseguenze dell’espulsione delle truppe statunitensi di stanza in Iraq, ovvero l’annullamento degli accordi conclusi tra Washington e Baghdad e la rinuncia ai programmi di addestramento e assistenza forniti dagli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico.
Fuori dall’Iraq
Calmati gli animi, tuttavia, l’Iraq rimane determinato a esercitare la sua leadership, “punendo” quella che ha definito “una violazione della sovranità nazionale e del mandato della coalizione”, che si troverebbe in Iraq al solo scopo di combattere lo Stato Islamico. “É fondamentale che tutte le truppe da combattimento lascino il Paese” – ha dichiarato il portavoce del primo ministro iracheno, Abdelkarim Khalaf – “E che il nostro spazio aereo non venga più utilizzato”.
Dalle parole ai fatti. Nei giorni scorsi, funzionari iracheni e statunitensi hanno elaborato alcune proposte, sottoponendole direttamente al premier iracheno. Tra queste, le opzioni più probabili sembrerebbero essere la formazione di una coalizione non più guidata dagli Stati Uniti e con un mandato diverso, che ne limiti le attività, e l’ampliamento del ruolo della missione Nato, già presente in Iraq. Restano da chiarire, inoltre, i passi da compiere per evitare che un rapido ritiro delle truppe americane destabilizzi il Paese, favorendo, inoltre, l’avanzata dell’Is.
La missione Nato in Iraq
L’ “opzione Nato” – la cui missione in Iraq è stata sospesa all’inizio di gennaio, in seguito all’uccisione di Soleimani – avrebbe già ottenuto un primo consenso da parte del premier, dell’esercito e delle Forze di mobilitazione popolare irachene – coalizione paramilitare a maggioranza sciita -. Anche il presidente americano, Donald Trump, sembrerebbe propendere per questa opzione.
Con a disposizione circa 480 unità, la missione Nato in Iraq (Nmi), guidata dal Canada, è iniziata il 31 ottobre 2018, allo scopo di prolungare e rafforzare il supporto al Paese mediorientale, formando gli addestratori delle Forze di Sicurezza in numerosi settori – in particolare, C-IED, medicina militare, cooperazione civile-militare e manutenzione dei veicoli corazzati -.
Dopo una prima trattativa tra Nato e Iraq – svoltasi ad Amman il 29 gennaio -, le discussioni riprenderanno il mese prossimo, verosimilmente in occasione della riunione dei ministri della Difesa della Nato, che si terrà il 12 e 13 febbraio. Se l’ “ipotesi Nato” venisse confermata, tuttavia, rimarrebbero da risolvere alcune criticità, in particolare la lotta allo Stato Islamico. A prescindere dagli esiti, infatti, l’organizzazione internazionale ha stabilito che l’ampliamento della sua missione in Iraq riguarderà soltanto l’addestramento delle forze irachene, ma non prevedrà alcun ruolo di combattimento.