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Nel mondo sono numerosi i Paesi ad attendere una tornata elettorale nel 2020. Fra questi c’è anche l’Iran che il 21 febbraio 2020 dovrà scegliere i propri rappresentanti: i candidati concorreranno in 207 collegi per aggiudicarsi uno dei 290 seggi in parlamento. Le elezioni sono state a lungo utilizzate dalla leadership iraniana come strumento per costringere le élite ad un tour de force per dimostrare la loro lealtà al regime e creare l’illusione della legittimazione democratica dal basso. Questa volta, però, la tornata elettorale è ben più complessa: l’obiettivo è mostrare agli avversari politici in patria e ai nemici all’estero che il risultato rappresenta effettivamente la volontà del popolo iraniano. Il Paese, colpito duramente dalle sanzioni americane, deve affrontare l’ondata di malcontento che è esplosa lo scorso novembre e che vede protagonisti operai e giovani: è proprio questa la fascia di iraniani che chiede che la classe religiosa che regge il paese dal 1979 si ritiri dalla scena politica.

Lo spauracchio della bassa affluenza alle urne

Se Teheran ha risposto duramente alle rivolte di piazza, reprimendole nel sangue, c’è qualcosa che spaventa ancora di più l’establishment: il boicottaggio del voto. Una forma di protesta difficile da poter controllare e che, conquistando sempre più consensi, farebbe prevedere un’affluenza molto bassa alle urne. In una fase in cui il paese si candida a potenza leader del Medioriente, fiaccata economicamente dalle sanzioni, uscire da un turno di elezioni con un’alta affluenza è fra i desiderata del regime teocratico di Teheran. Di fronte alle continue proteste, una scarsa affluenza alle elezioni renderebbe infatti impossibile al regime mantenere viva la sua pretesa di legittimità. Oppure, per assurdo, potrebbe verificarsi anche la situazione opposta: poiché Hassan Rouhani, presidente dal 2013, sta perdendo tutti i voti dei riformisti, il boicottaggio delle urne rischia di far vincere gli ultraconservatori nel 2020 ma anche alle Presidenziali del 2021.

Ma stando alle analisi dall’interno, in Iran non vi sarebbe nulla di cui preoccuparsi. Secondo il Tehran Times, una delle voci più autorevoli del paese, numerosi esponenti politici sono fiduciosi circa il risultato di febbraio. Tra questi Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi, rappresentante del distretto elettorale di Mashhad e Kalat al Parlamento, che ha previsto un’affluenza “calda” e “forte” e che “poiché l’establishment è democratico, derivante dai voti delle persone, la partecipazione del popolo contribuirà ad aumentare il suo potere e migliorerà anche la sicurezza nazionale”. A riprova della democraticità del processo, la stampa iraniana fedelissima al regime, fa inoltre sapere che di tutte le candidature pervenute dall’inizio di Dicembre, ne sono state respinte soltanto un 8% per diverse ragioni: servizio militare, precedenti con la polizia, la magistratura, gli organi di intelligence; i candidati dovrebbero essere poi confermati dal Consiglio dei Guardiani, prima di poter ufficialmente correre per un seggio in parlamento.

Lo stratagemma dei giovani

Ma se i candidati continuano ad appartenere alla vecchia guarda a guida del Paese da 40 anni, come farà l’Iran a convincere i cittadini a recarsi alle urne? Reclutando elettori fantoccio nel ginepraio di milizie legate alle Guardie della Rivoluzione, oppure optando per la candidatura di giovani esponenti meno noti del regime: il loro volto da outsider ridurrebbe il sospetto che si tratti della solita compagine governativa, mentre la giovane età è un ottimo specchietto per le allodole per attirare i giovani sotto i 30 anni alle urne, illudendoli di votare per una classe di coetanei preparati e pronti. Secondo quanto riportato dal Al Jazeera, ciò troverebbe conferma nel fatto che il primo dicembre scorso il Consiglio di coalizione dei sostenitori della rivoluzione avrebbe chiesto ai suoi giovani militanti di registrarsi come candidati alle elezioni del 2020. Il generale Mohammad Qalibaf, ex comandante dell’Irgc ed ex sindaco di Teheran, avrebbe anche incoraggiato i suoi giovani sostenitori a candidarsi. Molti dei suoi giovani protetti, prontamente, hanno risposto rapidamente alla sua chiamata. L’idea di questo lifting elettorale sembrerebbe provenire dallo stesso leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Khamenei. A febbraio, Khamenei ha pubblicato un nuovo manifesto, intitolato The Second Phase of the Revolution nel quale ha posto la “gioventù rivoluzionaria” al centro della sua visione per il futuro della Repubblica islamica. Quello che maggiormente preoccupa il regime di Teheran è lo scollamento delle classi inferiori dal regime. Immediatamente dopo i fatti del 1979, infatti, furono le élites occidentalizzate e le classi economicamente elevate a distaccarsi dal regime repressivo di Khomeini che, invece, godeva dell’appoggio fedele della classe operaia e dei ceti meno abbienti. In questa fase è in atto una slegatura di questi gruppi che, vivendo sulla propria pelle alcuni rincari come quello dei carburanti e le restrizioni derivanti dalle sanzioni internazionali, non vedono più al regime teocratico come al supremo difensore dei propri interessi.

A proposito di giovani…

A dimostrazione del fatto che la campagna elettorale sia ufficialmente iniziata, una serie di stratagemmi rocamboleschi e di sottili strategie. Una di queste perseguite proprio da un giovane, Mohammad-Javad Azari Jahromi, il più giovane ministro di gabinetto della Repubblica islamica, a seguito di una valanga di critiche da parte del pubblico iraniano a seguito del blackout di internet. Irritati dalla repressione, molti iraniani hanno “punito” Jahromi bloccandolo su Twitter. Imperterrito, il trentottenne energico ministro ha diffuso un video che mostrava il servizio postale iraniano che consegnava un pacchetto al Ministero delle informazioni con un drone: un’abile strategia di propaganda che molto dice sulle sfide che la Repubblica islamica deve affrontare. Nonostante la giovane età, Jahromi appartiene a quella classe di tecnocrati che ha fallito nel saper interpretare i cambiamenti dell’Iran e nel gestire problemi strutturali come l’alta inflazione. Di fronte a una miriade di pressioni economiche, tra cui le sanzioni, la politica di resistenza dell’Iran colpisce ma l’orlo del baratro è vicino: l’Iran fallisce ripetutamente nel realizzare sviluppo economico. Dall’inizio della Rivoluzione fino ad oggi ogni governo iraniano ha cercato di avere una strategia economica, di sicurezza e di difesa ma senza creare mai ottimismo per il futuro.

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