Quello che sembrava un fuoco di paglia è diventato un incendio devastante. In Iran le proteste non si placano, nemmeno di fronte alla forca che incombe su manifestanti e attivisti. Tanto che i rumors vorrebbero il regime di Teheran alla ricerca di una exit strategy in Venezuela, qualora la rivoluzione dei giovani dovesse dare il colpo di grazia al sistema degli ayatollah.
L’Occidente temporeggiatore
E l’Occidente? Da più parti piovono accuse di doppiopesismo e ipocrisia di fronte a questo stare al balcone che apparentemente non trova spiegazione. Quale Occidente, poi, verrebbe da chiedersi: gli Stati Uniti impantanati nel negoziato con la Russia? L’Europa? La Nato? Le Nazioni Unite?
Le ragioni del temporeggiamento sono tante e passano innanzitutto per il riconoscimento dell’Iran come stato sovrano, fino a prova contraria. In secundis, oggi Iran vuol dire anche Russia e in pochi, dopo dieci mesi di guerra in Ucraina, sarebbero pronti alla levata di scudi contro l’amico del nemico (Putin). Ma soprattutto, Teheran non è Kabul e nemmeno Baghdad: intelligenti pauca.
Tuttavia, oltre le ragioni del cinismo delle parti, l’attendismo occidentale trova anche una ratio strategica, che nessuno francamente potrebbe biasimare: il rischio di finire dalla padella alla brace. Non è un’eresia, infatti, affermare che una frettolosa caduta del regime e una transizione armata potrebbe produrre degli effetti nefasti peggiori del 1979 per gli iraniani. Il regime, dunque, non va messo con le spalle al muro: se dovesse cadere senza un valido sostituto, ciò provocherebbe sicuramente il caos. E qualsiasi ingerenza straniera potrebbe anche peggiorare la situazione se non gestita adeguatamente da Golfo, Israele e l’Occidente stesso.
Quale transizione?
La società iraniana, seppur complessa, è molto più solida, matura e identitaria rispetto ad altre situazioni caotiche come lo sono state altre realtà nel Medio Oriente. L’ideale sarebbe raggiungere gli elementi moderati all’interno del regime e realizzare il cambiamento necessario per soddisfare le esigenze del popolo iraniano. E questi moderati, ammesso che ve ne siano ancora, dovranno essere gli interlocutori internazionali dell’Iran: peccato che l’Occidente sia paradossalmente sempre andato in soccorso ai conservatori.
Per questa ragione non vanno ignorati i segnali che giungono dall’interno: la sorella del leader supremo Ali Khamenei la scorsa settimana ha sostenuto i manifestanti e ha chiesto la fine del regime. L’ex presidente Mohammed Khatami ha invitato il governo iraniano ad attuare le riforme “prima che sia troppo tardi”, aggiungendo che libertà e sicurezza non si negano a vicenda.
Esiste anche un’altra possibilità, ovvero la formazione di una leadership in esilio che minacci il sistema dall’esterno; ed è per questa soluzione che propendono i manifestanti. I giovani di Teheran stanno esortando l’opposizione all’estero a formare una coalizione per rappresentare i manifestanti iraniani tra “altre nazioni del mondo libero”. Questi gruppi, che hanno acquisito una notevole influenza in breve tempo, sono uniti nel loro obiettivo di rovesciare il regime attraverso l’organizzazione di proteste e scioperi. La loro unica piattaforma sono i social media, nonostante le pesanti restrizioni di Internet e il blocco di tutte le principali piattaforme.
I rivoluzionari di questa “rivoluzione senza leader” stanno investendo le loro speranze in alcune figure politiche che vivono all’estero che hanno i mezzi per trasmettere il loro messaggio al mondo. Tra questi, diversi sembrano avere un’elevata popolarità, almeno secondo alcuni sondaggi sui social media, tra cui l’ex principe ereditario dell’Iran, Reza Pahlavi, gli attivisti Hamed Esmaeilion, Nazanin Bonyadi, Masih Alinejad, l’ambientalista Kaveh Madani, e perfino il popolarissimo calciatore Ali Karimi.
Le Guardie della Rivoluzione e l’Esercito
In questa fase, il vero pericolo è rappresentato dalle Guardie della Rivoluzione più che dal clero, che potrebbe vedersi scavalcato con durezza. Di fronte alle proteste che dilagano le soluzioni sono due: cedere a piccoli sorsi alle richieste dei manifestanti (ammesso che si accontentino delle briciole) oppure irrigidirsi ancor di più con esiti da scongiurare.
Il Corpo delle Guardie della rivoluzionarie islamica venne infatti progettato all’indomani della presa del potere da parte di Khomeini per difendere la repubblica a ogni costo. Da semplice corredo, quasi samurai, della teocrazia, sono diventati una piovra parallela sia allo Stato che all’esercito regolare: sono innanzitutto un potentato economico, controllando direttamente quasi trecento aziende chiave nei settori dell’energia e delle costruzioni. Ma soprattutto hanno una loro Marina e Aviazione. Negli ultimi anni, poi, è andata inscenandosi una loro progressiva radicalizzazione, in parte basato sul velayat-e faqih (il governo dei giuristi) di Khimenini, in parte sull’adesione al mahdismo, cioè all’attesa dell’ultimo imam, che dovrà ristabilire la giustizia nel mondo.
L’esercito è l’altro enigma nel caso iraniano. Non perchè non sia stato “leggero” con i manifestanti, ma perchè tra i militari e i pasdaran non è mai corso buon sangue. Subito dopo la rivoluzione del 1979 una serie di purghe rimossero gran parte dei comandanti dell’esercito addestrati dagli occidentali. Queste includevano numerose esecuzioni ordinate da Sadegh Khalkhali, il nuovo giudice della Corte rivoluzionaria. Tra febbraio e settembre 1979, il governo iraniano giustiziò quasi un centinaio di generali anziani e costrinse tutti i maggiori generali e la maggior parte dei generali di brigata al pensionamento anticipato. Da allora, pare che la Repubblica islamica abbia fornito posizioni chiave dell’esercito ai membri della Guardia rivoluzionaria per eliminare la possibilità di formare un’opposizione dall’interno.
Le IRGC, oggi, ancora non si fidano dell’esercito, “reo” di simpatizzare un tempo per lo shah e oggi sospettato di coprire alcuni manifestanti, in alcuni casi di parentela. La svolta può giungere da lì con l’appoggio occidentale? Forse, ma non bisogna incorrere nell’errore di pensare all’esercito iraniano come a ciò che fu l’esercito turco: un portatore di laicità e stabilità.
Tuttavia, un documento ricevuto e pubblicato dalla rete Iran International il mese scorso mostrava che il personale dell’esercito iraniano e le loro famiglie hanno sostenuto le proteste popolari antigovernative da settembre. In una lettera rilasciata da un alto comandante dell’esercito, venivano chiesti rapporti quotidiani sull’arresto del personale dell’esercito e delle loro famiglie durante le proteste. Hossein Safaralizadeh, comandante di una base militare nella città meridionale di Shiraz, ha anche affermato che l’ispettorato dell’esercito ha anche avvertito altri comandanti nelle province di Esfahan, Yazd e Charmahal-Bakhtiari di seguire quotidianamente tali casi.
Questa lettera potrebbe suggerire che i numeri del personale dell’esercito che mostrano simpatia per il movimento di protesta, o di membri della famiglia che partecipano alle proteste, è in aumento e gli alti funzionari militari ne sono preoccupati. “La presenza del personale dell’esercito e delle loro famiglie nei disordini, il loro arresto da parte della sicurezza, la scrittura di slogan antigovernativi sui muri delle caserme e l’ammontare dei possibili danni alle caserme e alle unità abitative dell’esercito devono essere segnalati quotidianamente”, si legge nella lettera. Si tratta, però, dello stesso esercito che in queste settimane, starebbe ricevendo ampie critiche per non aver agito contro la brutalità dei miliziani Basij, delle forze dell’IRGC e della polizia, che stanno uccidendo spietatamente persone innocenti durante la rivolta.
Più ad ovest, le grandi potenze restano a guardare. Devono: i loro errori e fantasmi dal passato sono tutti lì, non molto lontani da Teheran.