Con i recenti attacchi israeliani contro obiettivi iraniani in Siria, e la crescente tensione tra Iran e Siria da una parte, Israele (e Stati Uniti) dall’altra, la Russia si è ritagliata una posizione di mediatore tra i rivali mediorientali, mantenendo buoni rapporti con entrambi i paesi.

“Il Cremlino è seduto su due sedie”, ha detto all’Afp l’analista russo Alexei Malashenko. Con gli Usa isolati rispetto agli alleati europei e che rinunciano a una strategia di “bilanciamento esterno”, l’unica grande potenza che può avere la forza e la capacità di mediare in uno scontro fra Iran e Israele, infatti, è proprio la Federazione Russa di Vladimir Putin. “È una situazione complessa e difficile per la Russia che ha legami con entrambi i nemici giurati”. Nei giorni scorsi, Israele ha compiuto raid su una dozzina di obiettivi militari in Siria; nel frattempo, una ventina di 20 missili sono stati lanciati dalla Siria contro le forze israeliane nelle alture del Golan occupato.





Mosca ha subito invocato la moderazione, con le parole del ministro degli esteri Sergey Lavrov, secondo il quale “tutte le questioni dovrebbero essere risolte attraverso il dialogo”. Lavrov ha anche aggiunto che la Russia ha avvertito Tel Aviv di evitare “tutte le azioni che potrebbero essere viste come provocatorie” il giorno prima degli attacchi, proprio quando il primo ministro israeliano Netanyahu è volato a Mosca per partecipare alla parata del 9 maggio. L’analista russo Fyodor Lukyanov ha osservato che i rapporti tra Putin e Netanyahu sono “molto buoni” e che l’incontro tra i due leader, alla vigilia degli attacchi in Siria, dimostra che Mosca potrebbe svolgere un ruolo importante nella disputa Israele-Iran. “Mosca potrebbe usare le sue buone relazioni con i due paesi per aiutarli a comunicare e assicurarsi che lo scontro non superi certi limiti”, ha detto Lukyanov.

Putin l’ago della bilancia in Medio Oriente

Come osserva Robert Merry su The American Conservative, il vero ago della bilancia in Medio Oriente è Putin e l’unica speranza di evitare un conflitto devastante è proprio il leader del Cremlino. “Netanyahu lo sa, ed è per questo che si è precipitato a Mosca in seguito ai suoi attacchi aerei contro le posizioni iraniane e si è seduto vicino a Putin alla grande parata militare della Piazza Rossa di mercoledì. Il premier israeliano vuole assicurarsi che Mosca non risponda agli attacchi di tel Aviv contro le postazioni iraniane in Siria”. “La Russia – afferma  Maxim A. Suchkov su Al-Monitor – ha ascoltato le lamentele e le paure degli israeliani e degli iraniani. È un onere pesante, ma anche una risorsa politica per la Russia e le sue politiche regionali. Anche la Russia ha i propri interessi nella regione che non sono necessariamente quelli di Israele o Iran”.

Gi Usa tornano al Regime Change (ma non tutti sono d’accordo)

Con il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, l’amministrazione Usa torna a perseguire la strategia del Regime Change contro l’Iran. Un obiettivo strategico condiviso e sponsorizzato in primo luogo dal consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e dal segretario di stato Mike Pompeo. “Penso che l’Iran ci stia avvicinando alla guerra con la sua attività belligerante in Iraq e in Siria”, ha confermato Bolton ai microfoni della Cbs. “È quel comportamento militarista aggressivo dell’Iran sul campo nella regione che è la vera minaccia”. Anche se qualcuno ci dicesse che il regime ha rispettato l’accordo sul nucleare, ha sottolineato, “questo non fa alcuna differenza. L’unica soluzione al problema delle possibili armi nucleari iraniane è quella di rovesciare il regime”. Bolton ha persino fissato la data per il possibile Regime change, entro il 2019.

Posizione che non è condivisa dal capo del Pentagono James Mattis. Come riporta la Cnn, lo stesso Mattis in passato ha spinto per una strategia più aggressiva nei confronti di Teheran, tanto da definire nel 2016 l’Iran “la minaccia più duratura alla stabilità e alla pace in Medio Oriente”. Ma a differenza di Bolton, Mattis ha consigliato a Trump di rimanere nell’accordo nucleare, sostenendo – insieme all’ex segretario di Stato Rex Tillerson – che era nell’interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti farlo.

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