La “bomba” è stata sganciata oggi dall’agenzia turca Anadolu, che ha pubblicato una foto in cui si vede Silvia Romano mentre, subito dopo esser stata liberata, indossa un giubbotto antri proiettile con, attaccato, un patch raffigurante la bandiera turca. L’articolo, chiaramente una velina gentilmente offerta da Ankara, è molto scarno ed è confezionato solamente per celebrare il ruolo svolto dai servizi segreti turchi nell’operazione che ha portato alla liberazione della cooperante italiana. Servizi segreti che o hanno direttamente scattato la fotografia alla Romano oppure hanno provveduto a modificarla ad hoc, in modo tale da accentuare il lavoro svolto.
La versione di Ankara è stata ovviamente smentita dall’intelligence italiana: la cooperante italiana, infatti, sarebbe stata recuperata nella notte tra venerdì e sabato dai nostri 007 “con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo” e “quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake”, fanno sapere i nostri servizi. Che poi precisano: “Gli uomini dell’intelligence italiana che hanno compiuto l’operazione di liberazione sono gli stessi che nel novembre 2018, 48h dopo il sequestro, sono immediatamente stati inviati in territorio keniota dove, in collaborazione con le forze locali, hanno iniziato le operazioni di ricerca anche con l’ausilio di sofisticati droni” e che, “dopo aver avuto contezza del trasferimento della rapita in Somalia, si sono trasferiti stabilmente in quel paese, senza mai interrompere le attività di ricerca, fino all’operazione dell’altra notte, quando, in silenzio e con professionalità, hanno recuperato Silvia Romano”.
Molto probabilmente, però, i servizi segreti italiani si sono affidati a quelli turchi per cercare di ricostruire gli spostamenti della giovane e, infine, per ottenere la sua liberazione. Come scrivevamo su queste pagine, infatti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha saputo tessere una fitta rete di rapporti con i governi e i gruppi somali che in quest’occasione sono risultati parecchio utili. Ankara è infatti presente nel Corno d’Africa da 19 anni e qui ha creato una rete che tocca i principali snodi politici e commerciali di quest’area. Tutto è iniziato nel 2011, come ricorda l’Agi, “a seguito di una visita del presidente Recep Tayyip Erdogan in una Mogadiscio devastata dalla carestia”. Il Sultano, proprio come cercherà di fare anni dopo in Siria, sfrutta il vuoto di potere che si è creato in Somalia e, grazie all’agenzia per la cooperazione Tika (Turk Isbirligi ve Koordinasyon Idaresi Baskanligi) Ankara fa arrivare a Mogadiscio finanziamenti, avvia progetti di sviluppo e apre scuole, sostenendo il governo del presidente Mohamed Abdullahi Farmajo.
Con questa operazione Erdogan cerca di raggiungere due obiettivi: allargare la propria sfera di influenza in Africa e contrastare i Paesi del Golfo rivali: Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Come ricorda l’Agi, “le aziende turche gestiscono le rotte aeree e marittime di Mogadiscio e addestrano soldati del governo somalo. Gli sforzi di Ankara per sostenere il governo somalo sono stati premiati lo scorso gennaio con la proposta di Mogadiscio a effettuare esplorazioni petrolifere in acque somale, come annunciato dallo stesso Erdogan il 20 gennaio scorso di ritorno dal vertice di Berlino sulla Libia, altro paese in cui Ankara è fortemente impegnata, anche militarmente, a sostegno del Governo di accordo nazionale (Gna)”.
Ma non solo. In seguito allo scoppio della pandemia da Coronavirus, la Turchia ha inviato due carichi di aiuti e dispositivi sanitari in Somalia. Un’ottima occasione per il presidente turco per mostrarsi un valido alleato per Mogadiscio.
Come abbiamo visto, il presidente turco è abile a destreggiarsi nel caos politico. E ora che l’operazione per liberare Silvia Romano è andata a buon fine, il Sultano è pronto a giocarsi il suo credito nei confronti del governo italiano. La foto pubblicata oggi da Anadolu potrebbe essere solo il primo asso nella manica di Erdogan.