La “indivisibilità della sicurezza” entra prepotentemente nel dibattito tra Russia e Occidente. Ne ha parlato Sergei Lavrov, commentando le mancate risposte della Nato e degli Stati Uniti sul punto. In una lettera ai ministri degli Esteri dei Paesi della Nato, il capo della diplomazia russa ha chiesto come l’Alleanza Atlantica interpreti il concetto. E ne ha parlato anche lo stesso blocco occidentale che, come svelato dal quotidiano El Pais, ha risposto alle richieste russe citando proprio questo principio e mostrando alcune timide (ma sostanziali) diversità di vedute tra Washington e Bruxelles. L’una per provare a discuterne, l’altra per negare qualsiasi dibattito sul punto.
Per comprendere il nodo di forma, ma anche e soprattutto di sostanza, che riguarda questo principio, bisogna risalire a un documento internazionale: l’Atto finale di Helsinki. Siamo nel 1975 e 35 Paesi, tra cui le potenze del blocco occidentale e l’Unione Sovietica decidono di mettere nero su bianco un testo che ponesse fine alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Il testo, che è poi stato la base per lo sviluppo della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) è considerato in quel momento – e continua a esserlo secondo molti analisti – uno degli atti essenziali per raffreddare una Guerra Fredda che aveva avuto inquietanti sussulti in diversi parti del mondo. E il fatto che ancora oggi venga citato come chiave nelle relazioni tra Europa, Stati Uniti e Russia è un segnale di come sia ancora oggi vivo, nonostante il tempo e i cambiamenti politici che hanno sconvolto il panorama politico internazionale. E in particolare quella che un tempo era l’Unione Sovietica.
Tra i vari elementi che contraddistinguono l’accordo di Helsinki vi è appunto il principio della “indivisibilità della sicurezza”. Un termine, anzi, tre parole, che a un primo impatto potrebbero apparire vuota retorica, ma che in realtà indicano una precisa dottrina strategica, anche se di difficile comprensione. Non esiste in realtà una definizione specifica di questa locuzione. Ma se si estrapola il concetto dagli atti dell’Osce, dalle dichiarazioni dei principali protagonisti della sicurezza europea (sia lato russo-sovietico che atlantico) e alcune considerazioni degli analisti che hanno studiato la questione è possibile sintetizzarlo nel fatto che la “indivisibilità della sicurezza” implica che tutti i Paesi del blocco europeo, a prescindere dalla loro appartenenza a un determinato accordo, debba avere garantita uguale sicurezza. La stessa Organizzazione, nel documento di Istanbul del 1999 scriveva che questa carta “contribuirà alla realizzazione di uno spazio di sicurezza comune e indivisibile, promuovendo la creazione di un’area OSCE priva di linee divisorie e zone con diversi livelli di sicurezza”. Un principio che si contrappone a quello della sicurezza collettiva perorato dalla Nato, che invece implica che i principi della sicurezza e dell’inviolabilità siano garantiti solo a quegli Stati che decidono di assumere determinati impegni internazionali.
In pratica è la distinzione tra chi ritiene che l’area Osce abbia una sicurezza generalizzata che deve essere garantita a tutti gli Stati, senza escludere che vi sia un’area più sicura o più garantita rispetto ad altre, e tra chi invece considera che esistono aree di sicurezza non definibili in base a confini e alleanze, ma che rientrano in altri schemi.
I due approcci hanno pro e contro. C’è chi ritiene che solo il primo metodo, quello della sicurezza collettiva pensato in sede Nato, possa rappresentare uno schema di sicurezza utile a garantire i Paesi più deboli, basandosi su una fedeltà assoluta e un’alleanza reciproca. L’altro schema, invece, parte da due presupposti: il primo è che non può esistere un’alleanza che garantisca tutti i Paesi del mondo e che chi ci ha provato, per esempio le Nazioni Unite, di fatto non ha saputo raggiungere questo obiettivo. D’altro canto, è chiaro che non esista alcuna garanzia che un principio di sicurezza invisibile su scala regionale possa essere foriero di una soluzione pacifica. Nessuno può garantire che l’altro si comporti garantendo la propria sicurezza senza scalfire quella altrui. E anche dal punto di vista del sostegno agli alleati, un blocco vincolante è percepito come un sistema di reazione molto diverso rispetto a una piattaforma pan-europea debole e politicamente senza un fine.
Fuori di metafora, ed entrando concretamente sullo scontro tra Russia e Occidente, il nodo resta quindi su due idee di pace, come descritto da Artem Kvartalnov. Mosca considera prioritario garantire la sicurezza dei Paesi escludendo che vi sia una sicurezza collettiva, cioè l’allargamento di un’unica alleanza e un blocco che si tutela indipendentemente da chi ne è al di fuori. Pertanto sul fronte ucraino, se l’Occidente non garantisce la sicurezza indivisibile sancita nei documenti Osce, di fatto ritiene non vincolanti quegli accordi e si considera come unica depositaria degli interessi dell’intera area euro-atlantica. E con l’allargamento a est, considerato una minaccia esistenziale per la Russia, immediatamente l’Occidente lederebbe il principio della sicurezza indivisibile degli appartenenti a questo patto.
Dall’altra parte, Bruxelles perora la propria causa ritenendo che per fornire garanzie di sicurezza sia necessario aderire a un progetto politico-militare. Si allarga l’area armonizzata dall’Alleanza Atlantica che a sua volta esiste nell’Osce e si fornisce supporto a chi ne fa parte. Una pacificazione basata su dei principi che sono anche di natura politica: come sottolineato dal fatto che Joe Biden abbia ribadito il suo interesse alla creazione di un “blocco delle democrazie”. Gli interessi regionali sarebbero troppo alla mercé di una potenza più grande, e cioè la Russia, ritornando a sfere di influenza che la Nato non vuole che si ricostruiscano perché vuole blindare l’area euro-atlantica evitando che possa essere messa in crisi dalle pressioni orientali.