Dopo uno stallo politico durato più di un anno, usuale per la verità per il Paese dei cedri, il Libano dallo scorso 10 settembre ha un nuovo governo. Una squadra di “tecnici” ufficialmente, in realtà tutti i nuovi ministri hanno una chiara connotazione politica e comunitaria. L’esecutivo rispecchia infatti la consuetudine degli ultimi anni in cui la suddivisione delle poltrone deve tener conto, oltre che delle differenze ideologiche, anche del livello di rappresentatività di ciascuna delle principali tre comunità: quella musulmana sunnita, quella musulmana sciita e quella cristiana maronita. Il premier, come previsto dai criteri di suddivisione del potere, è sunnita. Si tratta di Najib Mikati, magnate dell’edilizia e delle telecomunicazioni, nonché uomo più ricco del Libano giunto alla sua terza esperienza da primo ministro. Non proprio un volto nuovo, come invece da mesi era richiesto dalla società civile. Per il Paese adesso inizia una delle prove più difficili, quella di ritrovare una certa stabilità economica. Ma il nuovo governo libanese è anche una prova per l’Ue: il principale input per la formazione dell’esecutivo è arrivato infatti da Bruxelles.

Il nuovo governo

A Beirut sono frequenti i blackout energetici. Spesso, anche in pieno giorno, nella capitale manca l’elettricità. Di rifornimenti da un anno a questa parte ne arrivano molto pochi. A pesare in tal senso è l’impraticabilità del porto saltato in aria con l’esplosione del 4 agosto 2020. Una deflagrazione che ha fatto collassare anche il precedente governo di Hassan Diab, nato sulla spinta delle proteste popolari innescatesi sul finire del 2019, quando già i primi segni di crollo dell’economia iniziavano ad essere ben evidenti. Da allora il Libano ha arrancato. La politica non è riuscita a trovare subito un accordo per un nuovo esecutivo, la situazione economica si è letteralmente arenata facendo mancare alla popolazione anche i beni di prima necessità. Nessuno in questo anno ha potuto assumersi i poteri e gli oneri per attuare quelle decisioni vitali quanto meno a ridare una linea politica ben definita a Beirut.

In estate la svolta. Si è individuato in Najib Mikati l’uomo a cui affidare il governo. Dopo settimane intense di trattative, tutti i vari partiti hanno trovato una prima quadra. L’idea originaria era quella di un esecutivo tecnico, ma per la settaria politica libanese l’applicazione di un simile principio ha assunto l’aspetto di una mera utopia. La scelta è caduta per una via di mezzo. Il governo ha un aspetto sì tecnico, ma con persone legate alle varie fazioni politiche e comunitarie. I ministri sono 24, di cui 12 cristiani e 12 musulmani. Ogni formazione politica ha indicato il proprio “tecnico” rappresentante. Hezbollah, il movimento filo-sciita sostenuto dall’Iran, ha in quota due ministri. Il dicastero al momento più importante, quello dell’economia, è andato al funzionario della Banca Centrale Youssef Khalil. Sarà lui a dover mettere mano alle disastrate casse del Paese, dove scarseggiano anche le riserve. Il Libano ha bisogno di un’immediata iniezione di liquidità per sopravvivere. Per questo il primo passo dovrebbe essere quello di ottenere un prestito dal Fondo Monetario Internazionale, a condizione però che Mikati si impegni a effettuare profonde riforme strutturali. Beirut è con l’acqua alla gola e i margini di manovra sembrano inesorabilmente stretti. Forse è la prova più importante per il Libano da quando nel 1989 è terminata la guerra civile. C’è da chiedersi se un governo nato con le stesse dinamiche dei precedenti e con la prospettiva di rimanere in carica pochi mesi (Mikati ha assicurato nuove elezioni nella prossima primavera) avrà la forza per ridare fiato alla stremata popolazione libanese.

Una prova per l’Unione europea

A pressare per la formazione di un nuovo esecutivo è stata in primo luogo l’Europa. In particolar modo, come hanno sottolineato fonti diplomatiche alla Reuters, il principale input per l’insediamento del governo è arrivato da Parigi. La Francia ha tutto l’interesse a non veder definitivamente fallire il Libano. Il Paese è un partner commerciale importante, una pedina fondamentale per lo scacchiere transalpino in medio oriente. Un discorso che può essere esteso anche all’Italia, al momento però rimasta ad osservare l’evolversi degli eventi. Emmanuel Macron vuole giocarsi in Libano le sue ultime carte in politica estera. Uscito malconcio dal Sahel, dove l’Eliseo si appresta a chiudere la missione Barkhane in Mali, reduce dall’umiliazione dell’affaire sui sottomarini australiani, il presidente francese vuole dimostrare di avere ancora una forte presa nei Paesi del medio oriente tradizionalmente vicini a Parigi. Nell’avventura politica libanese, Macron ha di fatto coinvolto l’intera Ue. Non è un caso che uno dei primi commenti alla notizia della nascita del nuovo governo è arrivato dall’Alto Rappresentante della politica estera comunitaria, Joseph Borrell. Quest’ultimo ha lanciato una dichiarazione che sa già di ultimatum: o le riforme oppure niente sostegno a Mikati.

L’Unione europea considera il Libano un proprio affare, in cui agire in modo autonomo dagli Stati Uniti. Washington dal canto suo ha lasciato (per il momento) campo libero. Ma per Bruxelles le insidie in tal senso non mancano. Se il nuovo esecutivo riceverà dall’Europa soltanto aut aut, Mikati potrebbe guardare verso i Paesi del Golfo. Le petromonarchie, nonostante la presenza di Hezbollah, guarderebbero già con interesse a possibili affari a Beirut. La partita per il futuro del Libano è appena iniziata.





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