Per il Sud America, una costante all’inizio del ventunesimo secolo è stata la volontà pressoché unanime di emanciparsi dagli Stati Uniti. L’applicazione, nel secondo ‘900, del “corollario Roosevelt” alla dottrina Monroe, secondo il quale tutto il continente americano doveva, di fatto, orbitare attorno a Washington, con gli stati sudamericani considerati alla stregua di un “cortile di casa” (con conseguente sostegno a regimi considerati “affidabili”), ha alimentato nel corso dei decenni un sentimento anti-americano diffuso in tutta la regione.

Sentimento che si è concretizzato con l’ascesa di governi politicamente ed economicamente non allineati ai dettami capitalisti e liberisti del “Washington Consensus”. L’esempio più paradigmatico è certamente quello di Hugo Chávez, che conquistando il potere in Venezuela nel 1999 riuscì a incanalare le pulsioni anti-americane, unitamente a istanze identitarie, in un ideale di rivoluzione bolivariana da propagare in tutto il Sud America.

L’eco del bolivarismo si diffuse presto anche in Bolivia, dove Evo Morales fu eletto presidente nel 2002 facendo della liberazione dall’imperialismo statunitense l’architrave della propria campagna elettorale. Anche l’Uruguay si rese protagonista di una svolta in senso socialista con la vittoria alle elezioni del 2005 di Tabaré Vazquez, seguito nel 2010 dal carismatico Pepe Mujica, e nuovamente in carica dal 2015. Da ricordare la lunga parentesi socialdemocratica brasiliana, avviata da Lula nel 2003 e proseguito, tra scandali e instabilità, con Dilma Roussef fino al 2016 e con Michel Temer fino al 2018. Anche l’Argentina, dopo la bancarotta dichiarata nel 2001, fu protagonista di una svolta socialista, pur in seno al peronismo, con l’ascesa di Nestor Kirchner nel 2003, seguito dalla moglie Cristina, alla Casa Rosada dal 2007 al 2015.

L’equilibrio precario dell’Unasur

Questa convergenza portò all’istituzione, nel 2008, dell’Unasur (Union de Naciones Suramericanas), un’organizzazione di fatto capeggiata da Chávez, Morales e Lula, il cui obiettivo era costituire un blocco unito di paesi sudamericani contrapposto a Washington. L’Unasur iniziò a palesare tutte le proprie fragilità già con la morte di Chávez nel 2013. L’asse costituito da Venezuela, Bolivia e Uruguay – i cui governi erano più radicali nell’applicazione del socialismo – trovò una sempre maggiore opposizione da parte del “Gruppo di Lima“, formato da Perù, Argentina, Brasile, Cile, Colombia e Paraguay.

L’escalation della crisi venezuelana da una parte e la vittoria di presidenti di impostazione liberista come Mauricio Macri in Argentina nel 2015 e, tre anni dopo, di Jair Bolsonaro in Brasile, hanno dato il definitivo colpo di grazia alle velleità del blocco, che appariva irrimediabilmente sfaldato in occasione del rifiuto di Venezuela e Bolivia di nominare, nel 2017, l’argentino José Octavio Bordon segretario generale dell’Unasur. Il Gruppo di Lima rispose scagliandosi contro Nicolás Maduro, accusato di condotta antidemocratica, e non permettendo alla delegazione venezuelana di partecipare all’ottavo summit delle Americhe nel 2018. La Bolivia intervenne immediatamente convocando una riunione di emergenza per esprimere la propria solidarietà nei confronti di Maduro. Pochi mesi dopo, Morales fu nominato presidente pro tempore dell’Unasur. Ciò provocò la reazione rabbiosa del Gruppo di Lima, che si autosospese dall’organizzazione, prima che la Colombia, nell’agosto dello stesso anno, decidesse di uscire ufficialmente. Lo scorso 22 marzo l’Unasur ha intonato il proprio “De Profundis” in occasione dello scioglimento ufficiale della stessa.

La vittoria di Macri in Argentina nel 2015 e di Bolsonaro in Brasile nel 2018 ha segnato una svolta liberista in tutto il Sud America, complici la drammatica situazione del Venezuela e la posizione ormai sempre più minoritaria e isolata di Bolivia e Uruguay. Le redini delle relazioni tra i Paesi della regione sono dunque passate a Buenos Aires e Brasilia, coadiuvate dal governo cileno retto dal 2017 dal liberal-conservatore Sebastian Pinera.

Dall’Unasur al Prosur: la svolta filo-americana

Macri, Bolsonaro e lo stesso Pinera, oltre ad essere stati i primi leader sudamericani a riconoscere Juan Guaidò quale presidente legittimo del Venezuela, sono i fondatori del Prosur (Foro para el Progreso y Desarollo de America Latina), ufficialmente istituito lo scorso 22 febbraio a Santiago del Cile e al quale hanno già aderito anche Paraguay, Colombia, Ecuador, Perù e Guyana. Obiettivo ufficiale del neonato organismo è l’attuazione di politiche comuni in materia di sicurezza, sanità, infrastrutture, energia, difesa, gestione delle calamità naturali e contrasto alla criminalità. Inoltre, il Prosur è caratterizzato da rigidi requisiti di accesso, che impongono ai governi interessati ad aderire il rispetto di determinati standard di democraticità, oltre che dei diritti umani.

La data di nascita del Prosur coincide con la presa d’atto ufficiale della fine dell’Unasur. Non è un caso, giacché rappresenta la netta discontinuità che d’ora in avanti il triumvirato composto da Macri, Bolsonaro e Pinera intende segnare rispetto al passato. Tale inversione di tendenza riguarderà anche i rapporti con gli Stati Uniti, che modello politico-economico da contrastare si configurano adesso quale partner strategico sempre più privilegiato.

Tra Mauricio Macri e Donald Trump intercorre, infatti, un rapporto di amicizia risalente a quando entrambi erano più o meno estranei alle dinamiche politiche dei rispettivi Paesi, mentre Jair Bolsonaro ha manifestato stima nei confronti dell’attuale Presidente degli Stati Uniti e delle sue politiche già durante la campagna elettorale. A riprova di quest’ultimo aspetto, si aggiunge la visita dello stesso Bolsonaro alla Casa Bianca, con tanto di scambio delle maglie delle nazionali di calcio con Trump.

La congiuntura attuale sorride, insomma, a Washington, che potrà tornare a esercitare la propria influenza sull’intero Sud America, con la collaborazione di buona parte dei governi locali.





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