Mai mettersi contro un quotidiano statunitense: il più delle volte si finisce davanti a un giudice. Ce lo ha raccontato bene una pellicola pluripremiata come Il caso Spotlight (2015, regia di Tom McCarthy) nel narrare la storia dell’indagine del Boston Globe sull’arcivescovo Bernard Francis Law. Nel 2001 la squadra giornalistica Spotlight del noto quotidiano americano, guidata dal neo-direttore Martin “Marty” Baron, diede il là a una clamorosa e storica indagine che svelò gli abusi sessuali perpetrati da oltre settanta sacerdoti dell’Arcidiocesi di Boston ai danni di minori.
Law costituiva l’indiziato principale, accusato di aver insabbiato e coperto numerosi casi di pedofilia avvenuti in diverse parrocchie. Un’indagine che scoperchiò un enorme vaso di Pandora all’interno della Chiesa cattolica e che valse il Premio Pulitzer di pubblico servizio al quotidiano nel 2003.
Il New York Times cita in giudizio la Commissione europea
Al di là di casi più eclatanti, negli Stati Uniti è molto comune che un quotidiano o il mondo dei media in generale avvii inchieste che poi si proiettano all’interno dei tribunali. Non ultimo il New York Times, che ha scelto di portare al banco degli imputati la Commissione europea, rea di non aver reso pubblici i messaggi di testo tra Ursula von der Leyen e il Ceo di Pfizer Albert Bourla. Il giornale affronterà gli avvocati dell’Ue nella più alta corte del blocco, sostenendo che la Commissione ha l’obbligo legale di rilasciare copia di queste comunicazioni, che potrebbero contenere informazioni sugli accordi dell’Europa per l’acquisto di miliardi di euro di dosi di vaccini contro il Covid-19. La notizia è esplosa martedì scorso: il caso è stato, infatti, depositato il 25 gennaio, ma pubblicato lunedì nel registro pubblico della Corte di giustizia europea.
La redazione del New York Times, tuttavia, resta prudente e abbottonata, limitandosi a dichiarare: “Il Times presenta molte richieste riguardo la libertà di informazione e mantiene un registro attivo. Al momento non possiamo commentare l’oggetto di questa causa”.
Un’indagine giornalistica durata di due anni
Ma dove nasce l’indagine sugli scambi testuali tra von der Leyen e Bourla? Era il 28 aprile del 2021, e dopo più di un anno di crisi pandemica, il quotidiano statunitense pubblicava un articolo intitolato The E.U. seals a deal with Pfizer to speed up vaccinations a firma di Matina Stevis-Gridneff, nel quale si accennava al fatto che da, circa un mese, von der Leyen, scambiava messaggi e telefonate con Bourla, ipotizzando che Pfizer avrebbe potuto avere molte più dosi di vaccino da offrire e che l’Unione le stesse anelando. Un accordo, insomma, nel quale la diplomazia personale avrebbe giocato un ruolo importante, facendo dell’Unione europea il più grande cliente di Pfizer. Appena due settimane prima, la stessa giornalista descriveva il caos europeo sui vaccini in seguito al malfunzionamento e i sospetti sugli effetti collaterali di Astrazeneca, nonché la vigorosa sterzata a favore di Pfizer.
A dare contezza per primo della vicenda è stata la redazione di Politico. La causa farebbe seguito a un’inchiesta del gennaio 2022 del Mediatore europeo Emily O’Reilly, che ha identificato una cattiva gestione della vicenda da parte della Commissione, nel tentativo di recuperare originariamente i messaggi di testo, a seguito di una richiesta di accesso pubblico da parte del giornalista di netzpolitik.org Alexander Fanta. L’indagine del Mediatore ha rilevato che la Commissione non aveva chiesto esplicitamente all’ufficio personale del Presidente di cercare i suddetti messaggi. Non solo, ma alla richiesta la Commissione aveva replicato che “quando un documento redatto o ricevuto dalla Commissione non contiene informazioni importanti, e/o è di breve durata, e/o non rientra nel campo di applicazione della direttiva, e/o non rientra nella sfera di competenza dell’istituzione, non soddisfa i criteri di registrazione e non viene quindi registrato. Questi documenti effimeri e di breve durata non sono conservati e, di conseguenza, non sono in possesso dell’istituzione”.
Anche il quotidiano tedesco Bild aveva precedentemente intentato una serie di azioni legali contro la Commissione chiedendo la divulgazione di documenti relativi alle trattative per l’acquisto dei vaccini Covid-19 effettuate da Pfizer/BioNTech e AstraZeneca. Mentre molte delle sue petizioni sono state respinte dai tribunali, Bild aveva ottenuto alcuni documenti relativi ai colloqui, inclusa la corrispondenza e-mail a partire da giugno 2020. Nessuna informazione sui precedenti contatti di von der Leyen con il Ceo di Pfizer era però venuto alla luce a seguito del contenzioso .
Un precedente celebre: i Pentagon Papers

Al di là di cause più “comuni”, la stampa americana si è resa protagonista negli anni di casi ancora più clamorosi come quello dei Pentagon Papers. Era il 1968 quando l’allora segretario di Stato Robert McNamara commissionò uno studio che analizzasse il coinvolgimento politico degli Stati Uniti in nazioni del sud-est asiatico come il Vietnam e il Laos. Ne venne fuori un documento di 7 mila pagine divenne in seguito noto come Pentagon Papers. Il rilascio di questi documenti ai media americani segnò un importante cambiamento nell’opinione americana sul coinvolgimento degli Stati Uniti in numerosi conflitti nel sud-est asiatico e le conseguenti sfide legali hanno stabilito diversi precedenti importanti.
I Pentagon Papers esaminavano la politica e la pianificazione interna degli Stati Uniti nel sud-est asiatico dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1968. I documenti furono pubblicati internamente nel 1969 e consistevano in un vasto assortimento di documenti originali, accompagnati da migliaia di pagine di analisi scritte da funzionari del dipartimento di Stato. Contenevano una grande quantità di informazioni che non erano state rilasciate al pubblico americano, comprese le rivelazioni secondo cui gli Stati Uniti erano stati coinvolti più profondamente nel sud-est asiatico di quanto la maggior parte dei cittadini si rendesse conto. I guai ebbero inizio quando un ex funzionario del dipartimento di Stato, Daniel Ellsberg, consegnò i preziosi file a Neil Sheehan del New York Times. Il giornale iniziò immediatamente a pubblicarne degli estratti insieme ad articoli analitici. Quando il presidente Richard Nixon venne a conoscenza della pubblicazione, chiese un’ingiunzione per impedire al Times di andare in stampa. Nel frattempo, anche il Washington Post raccolse la storia, iniziando a pubblicare estratti supplementari.
Il New York Times e il Post portarono il caso alla Corte suprema, che il 30 giugno annullò l’ingiunzione per violazione del Primo emendamento, dichiarandosi a favore (6 a 3) della libertà di stampa. Il giudice Hugo Black, nella sentenza New York Times Co. v. United States dichiarò: “Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno nel governo. E di primaria importanza tra le responsabilità di una stampa libera è il dovere di impedire a qualsiasi parte del governo di ingannare le persone e di inviarle all’estero in terre lontane, a morire di febbri straniere e sotto le bombe ed il tiro nemico”.
Soltanto nel 2011, nel 40° anniversario della fuga di notizie alla stampa, i National Archives, insieme alle biblioteche presidenziali Kennedy, Johnson e Nixon, pubblicarono il rapporto completo.
Quando il Washington Post denunciò la Pfizer
Era il 1996 quando una epidemia particolarmente grave di meningite meningococcica di tipo cerebrospinale ebbe luogo nel distretto di Kano, situato nel nordest della Nigeria: si registrarono più di centomila casi con 11.717 morti. Fu la più grave epidemia di meningite verificatisi in Africa nel XX secolo, tanto che per porla sotto controllo furono necessari oltre tre mesi di sforzi congiunti da parte di una task force internazionale. La Pfizer partecipò alla missione di soccorso donando farmaci, attrezzature e materiali vari adatti per trattare le concomitanti epidemie di colera e morbillo, proponendo, inoltre, alle autorità nigeriane la sperimentazione di un nuovo farmaco, la trovafloxacina, del quale era detentrice del brevetto. A tal fine, ricercatori della casa farmaceutica si recarono in Nigeria realizzando uno studio in aperto su 200 bambini: tuttavia, durante la sperimentazione 5 bambini morirono e altri ebbero danni permanenti.
Nel dicembre del 2000, il giornalista del Washington Post Joe Stephens, specializzato in inchieste su aziende e società, pose la vicenda sotto i riflettori con una sua indagine. Gli esperimenti sollevavano pesanti interrogativi sull’etica aziendale circa la sperimentazione umana su pazienti male informati in società autoritarie. Le linee guida del settore per condurre esperimenti sulla meningite, inoltre, non avevano e non hanno mai previsto di testare un antibiotico nel mezzo di una terribile epidemia, soprattutto in un Paese privo di attrezzature diagnostiche di base.
Ne esplosero una serie di casi giudiziari ( il cosiddetto contezioso di Kano“): ad oggi il caso è oggetto di due controversie legali, una negli Stati Uniti ed una in Nigeria. In Nigeria, dopo la sparizione di documenti e una serie di vicende rocambolesche, nel mese di novembre 2010 si è svolta una cerimonia di posa della prima pietra per la costruzione di un nuovo ospedale della città di Kano. La nuova struttura nasce come conseguenza dell’accordo avuto tra il governo dello stato nigeriano e la multinazionale. Negli Stati Uniti, invece, dopo varie vicissitudini che hanno rischiato di far chiudere il caso, la Corte suprema, il 29 giugno 2010, ha rigettato un ricorso da parte di Pfizer, che ha cercato di porre fine alle cause legali da parte delle famiglie nigeriane ricorrenti. Alla vicenda di Kano è ispirata la trama del romanzo Il giardiniere tenace di John le Carré.