Il fine giustifica i mezzi” – la più famosa falsa citazione di Machiavelli racchiude, invertita in una forma moraleggiante, il cuore della sua scoperta. La politica non è semplice flusso, indeterminatezza caotica, lotta irregolare e indistinta per il potere, ma è, in realtà, la ricerca di un’articolazione tra le cose nella loro ridondante, opaca complessità e la loro organizzazione, il loro orientamento. 

L’intuizione a cui dà forma Machiavelli è che il timone delle cose possa essere almeno in parte condotto, perché la politica è proprio l’interstizio tra le finalità che diventano oggetto di lotta – e anche di deliberazione pubblica – e i modi concreti per perseguirle.

Quest’idea attraversa e definisce la modernità. Si tratta di trasformare le cose in leve che possano a loro volta permetterci di navigare, di decidere in che direzione svoltare: a destra, a sinistra… ed è un dato storico interessante che sia proprio la parola Stato, nella forma di un’azione compiuta in un participio perfetto, a essere scelta per rappresentare questo cortocircuito tra le cose che cambiano e l’azione sulle cose perché cambino. 

Senza mezzi non ha senso dibattere sui fini. L’agire operante è la condizione implicita del politico. In questo senso capiamo come la legittimità della modernità riposi sulla promessa del controllo, prima ancora che su quella del cambiamento o del progresso. 

No control

Appare qui un’ambiguità decisiva. Identificando nella sovranità il luogo dell’autonomia del politico, il timone di una caravella in balia delle onde si trasforma, grazie al lavoro alchemico dei giureconsulti, in una chiusa, in una diga capace di orientare i flutti. Lo Stato diventa la leva che solleva il mondo, ma qual è il suo punto d’appoggio? E come può questa forma giuridica garantire l’innesto del potere sulle cose?

È proprio questa aporia che ci sta esplodendo tra le mani. 

Nel suo ultimo formidabile scritto, pubblicato poco prima della sua scomparsa, il filosofo Bruno Latour esclamava profeticamente, citando Edipo: “perché la città, lo vedete voi stessi, è trasportata con troppa forza dalle onde in questo momento!” e continuava: “La difficoltà è che non abbiamo un’autorità o un organismo chiaro a cui fare riferimento… Nell’interregno non c’è nessuna autorità a cui possiamo rivolgerci. Siamo in attesa.”

Le scienze sociali, la storia, la filosofia cercano di definire in vari modi questo periodo di trasformazioni radicali e confuse, in cui la rivalità geopolitica produce una guerra estesa, la pandemia frammenta il ritmo della globalizzazione, la crisi climatica fa saltare il tavolo e l’economia sembra buttarci contro un muro. Nell’era della policrisi, della fine dell’abbondanza, nell’interregno l’ipotesi della modernità politica si sta sgretolando. 

Ma la macchina continua a girare. La vertigine dei nostri anni venti prende forme molteplici — può essere riassunta in un’idea semplice che ci parla individualmente e collettivamente: abbiamo perso il controllo. 

Due vite parallele

Nell’intensità dell’attualità assistiamo allo sviluppo di due esperienze politiche quasi simultanee, che avrebbero costituito un quadro narrativo perfetto a due vite di Plutarco. 

Da una parte abbiamo la leader di un governo con una maggioranza forte, a capo di un partito storico parte organica e secolare dell’establishment, al massimo del suo successo politico, con una moneta sovrana, margini ampi di azione, pressoché nessun trattato vincolante: la cosa più vicina, formalmente, all’autonomia del politico. 

Dall’altra la leader di un partito senza classe dirigente strutturata, inaspettatamente a capo di uno Stato indebolito con margini di manovra ristrettissimi, una coalizione eterogenea, dei vincoli esterni forti. 

Da una parte Liz Truss e il suo fallimento tanto rapido quanto spettacolare – dall’altra Giorgia Meloni e l’apertura, ancora incerta, di un nuovo ciclo politico. Entrambe ci raccontano in modo simmetrico la stessa storia. I limiti strettissimi della politica, l’affannosa domanda di controllo.

Da una parte l’onda lunga degli effetti della campagna del Brexit e del suo slogan ossessivo: take back control. Come sempre, il successo di uno slogan è tale perché condensa cose molto diverse in una forma semplice: il declassamento economico, la fine della protezione, la dislocazione della società, la nostalgia risentita dell’impero. In fondo, soprattutto, la ricerca di una nuova temporalità politica nel paese al centro dell’accelerazione globale della finanza. “Take back control” prepara il “Make America Great Again”. Una promessa di un ritorno che permetta di ripristinare una temporalità quasi messianica, tornando all’illusione della modernità. “Il Regno Unito sarà più libero, più giusto e più prospero fuori (outside)”, diceva l’attuale primo ministro. La ricerca forsennata di forme di autonomia ha determinato la dislocazione dell’azione del politico. 

Dall’altra parte, la trasformazione tecno-sovranista della linea di Fratelli di Italia, l’integrazione dei vincoli accompagnata, preparata durante la campagna elettorale: il riorientamento geopolitico sull’Ucraina per parlare agli apparati diplomatici e militari della Nato, l’adesione all’euro, alle regole per convincere l’eurocrazia, gli apparati di Stato, il capitalismo e i mercati. Per controllare una macchina che va a sbattere è meglio essere dotati di airbag, scaricando la pressione sulle strutture politiche e tecnocratiche. Invece del cambiamento, promettere la conservazione.

Giorgia Meloni sembra avere capito quello che ha scritto Helen Thompson, una delle più sottili studiose della politica contemporanea: “questa sarà la nuova normalità, fino a quando la classe politica non si renderà conto che la crisi e non la crescita sono la nuova norma e che la realtà del mondo sta distruggendo i luoghi comuni della politica partigiana e le ambizioni di carriera a un ritmo sempre più rapido”.

Lo specchio del principe

Quando parliamo con Weber di “capitalismo politicamente orientato”, stiamo identificando i mezzi, prima dei fini. Per fare funzionare di nuovo la macchina dello Stato è bene capire dove imbarca…

Il sistema che sviluppa con gli Stati Uniti in modo più impressionante (ma non per questo più stabile) la logica del capitalismo politico, la Cina di Xi Jinping, ci tende uno specchio deformante: [l’Occidente] si trova a affrontare tre grandi problemi intrattabili: la crescente disuguaglianza creata dall’economia liberale; il fallimento dello Stato, il declino politico e l’inefficacia della governance causati dal liberalismo politico; la decadenza e il nichilismo creati dal liberalismo culturale”.

Per rispondere, bisognerà uscire da questo specchio.

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