Avevamo lasciato il senatore americano Kevin McCarthy alle prese con la sua travagliata elezione a speaker della Camera dei rappresentati. Lui, l’uomo su cui i Repubblicani contano per mettere fine agli assegni in bianco all’Ucraina, è ora alle prese con la sua prima vera missione diplomatica all’estero in questo ruolo, egemonizzato per un lungo periodo dalla figura carismatica di Nancy Pelosi. Dare un’interpretazione politica al tour di McCarthy non è cosa semplice, essendo la sua missione a metà strada tra un tour della buona volontà e un messaggio ben preciso all’Europa, come maliziosamente più di qualcuno ha sottolineato.

La tappa “aggiunta” in Italia: perchè?

Il viaggio dello speaker, infatti, avrebbe dovuto riguardare eminentemente la regione MENA, con precise tappe in Egitto, Giordania e Israele. Tuttavia, una tappa aggiuntiva è stata inserita all’interno del serratissimo programma, passante proprio per la città eterna: ed è in quel di Roma che McCarthy ha incontrato Giorgia Meloni, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nonché il suo omologo Lorenzo Fontana, sostando nell’unico Paese Ue sulla sua lista. Quasi a voler lustrare un rapporto in cui Washington guarda all’Italia come hub centrale nel Mediterraneo. Ed è infatti di Mediterraneo che il senatore ha discusso con i suoi ospiti italiani ma soprattutto di conflitto in Ucraina e del complesso scenario geopolitico attuale.

Una conferma di una entente cordiale all’insegna dell’illustre precedente con Mario Draghi, che aveva riacceso i riflettori sulle relazioni Usa-Italia affette da presunta consunzione. Sebbene i dossier toccati segnino le numerose convergenze nonché l’indiscutibilità del posizionamento italiano sotto l’ombrello Nato, è probabilmente il dossier cinese che McCarthy è venuto a testare. Roma è infatti tra i grandi delusi del rapporto con Pechino, e dall’altra sponda dell’Atlantico la speranza è certo quella di veder rinnegata quella partnership nella quale l’Italia si è impastoiata con assoluta non curanza ed estrema velocità negli anni che hanno segnato la nascita del Memorandum con Pechino. Di anni ne sono passati quasi quattro dal fatidico 2019, e di quel paradiso di opportunità millantato da Pechino nemmeno l’ombra, bensì una serie di potenziali pericoli. Ed è venuto il tempo, secondo Washington, di avviare una separazione consensuale dalla Via della Seta. Tuttosommato, al di là delle credenziali personali del senatore, la sua performance in Italia sembra essere decisamente fedele alla linea Biden e al perseguimento, sfumato il sogno dell’America first, quantomeno del China second.

L’incidente diplomatico in Israele

Il 18 aprile scorso McCarthy era in Israele. E poi vi ha fatto ritorno per celebrare i 75 anni dalla nascita dello stato sionista pochi giorni fa. Qui ha avuto il piglio di azzardare un invito a Washington per il premier Benjamin Netanyahu in un momento di sua massima impopolarità. Nel frattempo, ha incassato un onore importante, diventando il secondo speaker della Camera a tenere un discorso alla Knesset, dopo Newt Gingrich nel 1998. Ma dalla visita di Stato all’incidente diplomatico il passo è breve: l’amministrazione Biden, alle prese con anni complessi per il rapporto Usa-Israele, ha finora ritardato il più possibile un invito ufficiale per il premier israeliano negli Stati Uniti. McCarthy, in barba al ruolo istituzionale che ricopre, avrebbe invece optato per una scelta partigiana: accusando il presidente degli Stati Uniti di aver aspettato troppo a lungo ha tuonato che, qualora i tentennamenti dovessero durare a oltranza, sarà sua premura invitare Netanyahu alla Camera.

E lo ha dichiarato non su un quotidiano casuale, ma sul Israel Hayom, fondato da Sheldon Adelson, barone americano dei casinò, grande sostenitore della destra israeliana ma soprattutto grande donatore del GOP. Uno scivolone diplomatico, nel periodo più complesso della storia americana, già verificatosi nel 2015 con il medesimo invito da parte dei rappresentanti repubblicani, che portò Netanyahu a saltare di proposito la visita alla Casa Bianca occupata da Barack Obama, in occasione della sua sortita al Congresso. Se un tempo, dunque, il sostegno di Washington a Israele aveva sempre riscosso l’approvazione bipartisan ora diventa terreno fertile alla polarizzazione dello scontro politico, prestandosi ad essere bandiera e prerogativa dei Repubblicani. Una mossa abbastanza miope, tuttavia: i sostenitori di Israele negli Stati Uniti (quelli d’anatan) non simpatizzano per il leader israeliano, che divide da tempo la diaspora in America. Una missione, quella in Israele, che ha poco della linea Biden in Medio Oriente, al di là della relazione speciale fra le due nazioni. Bensì una proiezione in Terra Santa di una faglia ideologica che spargerà veleno sulla campagna elettorale del 2024.

Egitto e Giordania: business as usual?

Egitto e Giordania sono state altre due importanti tappe conseguite da McCarthy. Decisamente più istituzionali. Qui ha guidato una delegazione bipartisan del Congresso, che ha incontrato il re Abdullah II. Un partner storicamente strategico per Washington. Solo pochi mesi fa, nel gennaio scorso, il re di Giordania si era recato negli Stati Uniti, nel pieno delle crescenti tensioni tra Israele e Palestina. In Egitto, invece, McCarthy ha sottolineato il ruolo di pivot del Cairo nel conferire stabilità alla regione. Palestina e Sudan sono i dossier sui quali lo speaker repubblicano e Abdel Fattah al-Sisi sembrano aver voluto enfatizzare la collaborazione tra i due Paesi che appare rafforzata negli ultimi due anni.

In ciò Biden non sembra mai aver invertito la rotta rispetto ai suoi predecessori, riconoscendo sempre e comunque all’Egitto il ruolo di potenza calmieratrice in un Medio Oriente in sempiterno travaglio: anche a costo di sorvolare su democrazia e diritti umani che hanno costituito una parte fondamentale della retorica bideniana ma che devono genuflettersi all’interesse nazionale. Difficile immaginare che il viaggio di McCarthy proprio qui abbia assunto sfumature diverse da quelle volute da Pennsylvania Avenue: così come è improbabile che nel corso dei possi mesi possa mutare l’approccio pragmatico che Washington ha sempre avuto verso l’Egitto fin dai tempi della Guerra Fredda.

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