Cogliamo il senso dell’idea di Europa: impossibile senza dimenticare il Nord Africa. Dall’islamizzazione del Nord Africa, fino alla colonizzazione europea, la faglia fra le sponde Nord e Sud del Mediterraneo si allarga. Si oppone in sua vece la connessione afro-arabica, oggi prossima all’apice grazie all’infiltrazione delle petro-monarchie del Golfo a ovest di Suez.

Le coordinate geopolitiche del Nord Africa attuale sono eredi di un duplice dislocamento, oramai qualificato come un “effetto faglia”, insieme marginale e minaccioso. Da una visione superiore, la prospettiva d’insieme delimita lo spazio dal Mediterraneo al Nord, al Sahel a Sud, dal Marocco a Ovest e dall’Egitto a Est: fondamentale è determinarne l’intervallo e l’estensione.

In primo luogo il Nord Africa non dispone di un perno geopolitico: non è quindi una “regione”, ma un mosaico di aree contese fra Europa, Stati Uniti, Cina e Russia e i “clienti” del Golfo. Secondo punto, oggi i conflitti degli Stati del Nord Africa non contrappongono quei Paesi labili politicamente, ma divampano al loro interno: sono agiti e subiti da popolazioni giovani, frustrate, disoccupate, insofferenti ai tradizionali patriarcati e aspiranti al mito del benessere occidentale; su di esse vegliano corrottissime burocrazie civili e militari.

Dei cinque Stati africani che si affacciano sul Mediterraneo uno non esiste, la Libia, che “contesa” tra Tripoli, Tobruk e Misurata, si categorizza in “Libie”. In Egitto la violenta sedazione della “primavera araba”, imposta dal generale presidente al-Sisi, perdura grazie al denaro proveniente dal Golfo arabo. La Tunisia, elevata dall’Occidente a modello della “perfetta” transizione araba (dall’autocrazia alla democrazia), è quotidianamente impegnata a smentirla. Rimangono i due rivali maghrebini, Algeria e Marocco; l’una prima potenza militare dell’Africa, Stato di Polizia che stenta a controllare il proprio territorio, l’altro antica monarchia, percorso dall’ombra di protesta che si spinge ad infrangere il tabù dell’immunità alla critica del re Maometto VI.

La terza circostanza rimarca la modesta tessitura istituzionale: le autorità nominali non esercitano che un frammentario controllo sugli spazi trans-frontalieri. I confini degli Stati sono geometrie arbitrarie tracciate dagli ex colonialisti, soprattutto francesi. Il Sahara odierno rimane un’ininterrotta via di traffici e competizioni, completamente insensibili ai confini post-coloniali, specialmente lungo il contestato confine tra Marocco e Algeria, con rarissime postazioni militari. Le dogane sono istituzionalmente delegate alla rapina.

La quarta questione è in correlazione con la seconda e riguarda lo scacchiere del Nord Africa: marginale, privo di soggetti forti, fa gola alle potenze esterne, americani, russi, cinesi e potenze petrolifere quali i paesi della Penisola arabica. Questa instabilità cronica si riverbera sugli Stati europei, esposti ai flussi migratori con il loro carico di terroristi compresi, ma sempre estremamente interessati alle ingenti risorse energetiche che si nascondono sotto la sabbia del Sahara.

L’incerta transizione politica dell’Algeria

Dallo scorso 22 febbraio l’Algeria è pervasa da un movimento di protesta nazionale che chiede un totale cambiamento politico. La settimana successiva all’annuncio del presidente Bouteflika, che dopo quattro mandati consecutivi si apprestava a correre per il quinto, centinaia di algerini sono scesi in piazza. Bouteflika, sotto la pressione del popolo e dell’esercito si è poi dimesso e da quel momento l’Algeria vive una transizione molto rischiosa, da cui ancora non è emerso un nuovo leader. Bouteflika si è dimesso il 2 marzo. Dopo ben sei settimane di manifestazioni, volte a richiedere radicali cambiamenti, il capo di Stato maggiore e viceministro della Difesa, Gaid Salah, ha sollecitato il Consiglio costituzionale a pronunciarsi, ufficializzando la cessazione della presidenza. La pressione della rivolta algerina è andata poi a determinare defezioni all’interno dell’entourage vicino alla presidenza, composto principalmente dagli esponenti dei partiti che componevano l’alleanza presidenziale. Da allora, il presidente del Senato algerino, Bensalah ha preso il posto del Capo dello Stato, assistito da un premier “ad interim”, il cui compito principale è quello di cercare di organizzare, il prima possibile, le elezioni presidenziali, rimandate continuamente dallo stesso popolo algerino, che non si fida di una transazione guidata dalle vecchie oligarchie.

L’Algeria preoccupa: i Paesi confinanti e le maggiori potenze, temono che un peggioramento della situazione interna aumenti l’instabilità dell’intera regione nord-africana e conduca ad una riacutizzazione del terrorismo jihadista, peggiorando le crisi migratorie.

Un altro pericolo è rappresentato dallo stallo economico; l’economia algerina resta in mano allo Stato ed è dipendente dall’export degli idrocarburi. Improvvise cadute del prezzo del gas e del greggio porterebbero ad una gravissima crisi socio- economica in un Paese dove la disoccupazione giovanile sfiora il 30%.

La Tunisia all’alba delle elezioni

In Tunisia dal 2011 si gioca la contesa tra le potenze dell’area nordafricana. Dalla “rivoluzione dei gelsomini” in avanti, l’influenza dell’Italia è andata scemando in maniera severa. Per circa trent’anni abbiamo “combattuto” con la diplomazia francese al fine di stabilire con le autorità e la società tunisine rapporti di privilegio sistematici dal punto di vista economico e industriale, ma abbiamo allentato le maglie da un punto di vista istituzionale. È normale che spuntino dei problemi, in particolare sotto il profilo della sicurezza nazionale, con una pressione migratoria sempre più pesante che potrebbe spostarsi dalle coste libiche a quelle tunisine e tramite il virus jihadista con probabile rientro in Europa di centinaia di foreign fighters tunisini rientrati dalla Siria. La Tunisia sembra essere passata indenne attraverso le “primavere arabe”, ma i governi post-rivoluzionari non sono stati in grado di risolvere la grave situazione economica e le acclamate riforme, alla fine, sono rimaste solamente sulla carta. La Tunisia sarà sotto i riflettori per le prossime elezioni politiche che vedono ben 26 candidati alla presidenza. Il vincitore dovrà fare i conti anche con una disoccupazione giovanile arrivata al 42%. Se la Tunisia dovesse fallire sul piano economico e politico, le principali cause della rivoluzione ritorneranno a galla e si potrebbe stabilire un solido legame tra i rivoluzionari “dei gelsomini” e i tunisini affiliati alla jihad.

“Libie”: la partita di Haftar sullo scacchiere meridionale e i legami con l’Egitto

La Libia è nel caos più assoluto: la rivalità tra il premier al-Serraj e il generale Haftar stringe il Paese in una morsa. Oramai non si può più parlare di Libia, ma di “Libie”, distinte tra l’esercito nazionale libico, il governo di accordo nazionale, le brigate di difesa di Bengasi, affiliate ad Al Qaeda, le milizie Tebu e quelle Tuareg. Dopo la caduta di Gheddafi le frontiere sono svanite, gli orizzonti meridionali si mimetizzano tra le sabbie del Sahara. Questa dimensione di grandi spazi meridionali, collegati da un rete fittissima di percorsi di trafficanti, crea una distanza enorme dalle coste mediterranee a quel sud libico che incrocia i movimenti anche jihadisti nelle zone del Sahel.

Allo stato attuale, la “questione meridionale” libica gioca anche la partita geopolitica che il generale Haftar ha instaurato con l’Egitto. Haftar ha sbandierato il suo obiettivo di porre in sicurezza i giacimenti petroliferi e bonificare l’area meridionale dai traffici di migranti e dai circuiti del terrorismo; si è trattato in realtà di un’operazione tattica per l’attraversamento del sud verso l’obiettivo prioritario di Tripoli, per evitare di passare per la strada costiera che comportava rischiosi combattimenti con le milizie di Misurata. In tale contesto Haftar, si riprometteva di ampliare la sua credibilità di fronte alle milizie locali di tribù Tuareg e arabe, come quelle con cui il presidente egiziano al-Sisi aveva garantito di avere strettissimi rapporti. Infatti l’unico Paese che sembra aver tratto profitto dalla crisi libica è l’Egitto. L’alleanza stretta con Haftar ha garantito infatti al Paese di al-Sisi una fascia di estrema sicurezza lungo la sua frontiera occidentale e la possibilità di ricevere quote di petrolio dall’enorme giacimento di Sarir.

A completare il quadro si notano impressionanti forniture di armi ai due schieramenti. La situazione di stallo sul fronte di Tripoli rischia di farsi cronica, rischiando di allargarsi in una girandola pericolosa sui vortici regionali.

Egitto: le monarchie del Golfo vogliono asportare il modello al-Sisi

In Egitto l’instabilità non è solo economica, ma certamente ingloba anche la sicurezza. In seguito alla caduta di Mubarak nel 2011 la penisola del Sinai è diventata molto instabile ed è il fulcro della lotta al terrorismo che ha legittimato l’ascesa e il potere di al-Sisi. In ogni caso Il Cairo non è riuscito a reprimere le militanze jihadiste, che dal 2014 combattono sotto la bandiera nera dello Stato islamico. A minare la stabilità dell’Egitto è anche la forte dipendenza che lo lega agli Stati del Golfo. L’élite egiziana appare molto interessata allo sviluppo di enormi progetti infrastrutturali, come quelli contenuti nelle “Visioni 2030” di Egitto e Arabia Saudita che progettano la creazione di un’area marittima di sicurezza comune e l’utilizzo economico comune al Mar Rosso. In tale maniera Ryad intende estendere la sua influenza economica e politica al Mediterraneo orientale, sfruttando il Canale di Suez. Il destino dell’Arabia Saudita e dell’Egitto sembra intrecciarsi in un futuro che prevede investimenti di persone in costante crescita. Si è addirittura ipotizzato che Il Cairo e Ryad potrebbero arrivare a coordinare le proprie politiche regionali in comune rivalità nei confronti dell’Iran. Alla fine si riduce tutto all’antica parola sanscrita per “Guerra”, cioè: “Yuddha”, “Desiderio di avere più mucche”.

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