Nessuna prova di una collusione fra Donald Trump e la Russia nelle elezioni presidenziali del 2016. Si chiude con un nulla di fatto l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller passata alla storia come Russiagate. E il rapporto di 33 pagine costituisce senza ombra di dubbio la più grande vitoria politica e giudiziaria di Trump dal momento in cui è entrato alla Casa Bianca.
Dopo più di 2.800 citazioni in giudizio, 500 mandati di perquisizione eseguiti, più di 230 richieste di documenti di comunicazione ottenuti, circa 50 registrazioni di comunicazioni telefoniche e ben 13 richieste a governi stranieri con 500 testimoni ascoltati, il Russiagate si è rivelato un fiasco totale.
Le conclusioni del documento sono chiare. Secondo il riassunto inviato dal procuratore generale William Barr al Congresso, “l’inchiesta non ha stabilito che membri della campagna di Trump abbiano cospirato o si siano coordinati con il governo russo nelle loro attività di interferenza elettorale”. Secondo Barr, il rapporto conferma che vi siano stati “da parte di Mosca due sforzi principali di interferire” nella campagna elettorale per il 2016. E questi due tentativi si rifarebbero ad attività dell’Internet research agency russa per svolgere “operazioni di disinformazione e reti sociali negli Usa” volte a “seminare discordia sociale e interferire nelle elezioni”. Il secondo tentativo, invece, sempre secondo il riassunto, consisterebbe nel fatto che “il governo russo ha hackerato i computer e ottenuto email da persone affiliate alla campagna di Hillary Clinton e alle organizzazioni del Partito Democratico e ha diffuso tali materiali attraverso vari intermediari, tra cui WikiLeaks”. Ma senza alcuna collusione con i repubblicani. E la conclusione di Mueller è netta: non ci sarà alcuna nuova incriminazione.
C’è solo un punto a sfavore del presidente: il fatto che non sia stata tolta l’incriminazione per ostruzione alla giustizia. Ed è lì che si concentrerà la battaglia dei democratici, che, a questo punto, hanno solo uno strumento per colpire la tenute del presidente Usa, uscito rafforzato in maniera cristallina da questa decisione finale del procuratore Mueller. Secondo il deputato democratico e membro della commissione Giustizia della Camera, David Cicilline, il fatto che il ministro Barr parli di “indicazioni evidenti che il presidente si è impegnato a ostacolare la giustizia” significa che il ministro debba consegnare queste prove al Congresso “immediatamente, insieme all’intero rapporto di Mueller”. Ma è chiaro che adesso tutta la costruzione dell’impeachment fallirà miseramente.
Per i democratici si tratta di una sconfitta su tutta la linea che conferma quanto fino a questo momento detto dallo stesso presidente Trump. Le accuse sulla collusione con la Russia sono da sempre il marchio di fabbrica dei democratici e di una parte dello Stato profondo americano (anche di parte repubblicana) che ha voluto per anni colpire la leadership del tycoon parlando di infiltrazioni del Cremlino, di presidente burattino di Vladimir Putin, di un leader che non rappresentava gli interessi statunitensi ma quella della Federazione russa. Ma tutti i critici avevano subito capito che fosse una trappola.
Il Russiagate è sempre stato lo strumento degli oppositori del presidente Trump per colpire la sua leadership. Un cappio da stringere introno alla Casa Bianca per evitare che il leader repubblicano potesse svolgere la sua politica in modo libero. Non poteva approvare alcuna decisione vagamente aperta nei confronti di Putin per non essere colpito dalla scure del Russiagate. E non poteva decidere alcun cambiamento di rotta nella politica estera Usa prima di ricevere la mannaia dei presunti oscuri rapporti con il Cremlino.
L’indagine, cavalcata da Barack Obama e Hillary Clinton e da tutti quei rivali del leader repubblicano, si è rivelata un fiasco. Furiosi per una vittoria elettorale che aveva di fatto eliminato quel bel mondo cui avevano fatto riferimento per anni, i dem e gli altri grandi segmenti dei repubblicani hanno cercato in qualsiasi modo di colpire la leadership di The Donald. Ma hanno fallito. La trappola fatta di presunte spie, da Paul Manafort a Maria Butina, è stata solo una grande pericolosa montatura. E adesso Trump può festeggiare.