La politica estera della Turchia di Recep Tayyip Erdogan è indubbiamente una delle più ricche e complesse della relazioni internazionali della contemporaneità. Spesso e volentieri esplicata in termini di puro e semplice neo-ottomanesimo (Yeni Osmanlıcılık), uno dei termini più incompresi e inflazionati dai distratti politologi occidentali, la politica estera turca è, in realtà, il risultato di un’intelligente combinazione di elementi ideologici (panturchismo, nazionalismo islamico e turanismo) e pragmatici, come le dottrine della Patria Blu (Mavi Vatan) e della Zero Problemi con i Vicini (Komşularla Sıfır Sorun Politikası).

Il neo-ottomanesimo rappresenta una categoria interpretativa sicuramente utile, quantomeno nell’ambito dell’esplicazione delle mosse di Ankara tra Balcani, Mediterraneo e regione Medio Oriente e Nord Africa, ma possiede un grande limite: è imparziale perché artificiosa – il termine, invero, è stato coniato in Occidente.

Non è il neo-ottomanesimo il motivo conduttore della nascita di un sodalizio ferruginoso tra la Turchia dell’AKP e l’Ungheria di Fidesz, ma il turanismo, così come non è il neo-ottomanesimo il grundmotiv alla base del dinamismo in Asia centrale e del recente intervento nel Nagorno Karabakh a supporto dell’Azerbaigian, ma il panturchismo. E non è il neo-ottomanesimo, infine, ad aver provvisto di carica propellente la Sublime Porta nel quadro dello storico sbarco nel Chiapas messicano e nelle Filippine, ma il solidarismo islamico.

In sintesi, il neo-ottomanesimo è un concetto che può significare tutto e niente, a seconda dell’impiego e dell’interlocutore, ma che in una costellazione variegata di contesti non possiede alcuna utilità esegetica, appunto perché imparziale e artificioso.

L’Africa subsahariana è la dimostrazione di quanto sia complicato, oltre che erroneo, configurare l’agenda estera della Turchia entro categorie precostruite e fittizie come il neo-ottomanesimo. Perché qui, dove la diplomazia turca sta portando avanti una meticolosa opera di penetrazione profonda e capillare, estesa dal Sahel a Capo di Buona Speranza, all’anelito neo-ottomano si mescolano e affiancano in maniera inestricabile elementi attinenti all’ideologia (nazionalismo islamico) e alla realpolitik (rivalità con Italia, Francia e petromonarchie), ognuno dei quali, a sua volta, promanante da una radice comune: la forma mentis innatamente imperiale della Turchia.

I turchi in Africa

Lo sguardo tende a posarsi naturalmente e spontaneamente su Libia, Sahel e corno d’Africa quando si scrive di Turchia nel continente nero, ma dietro l’apparenza si cela una verità di gran lunga più complessa e sfaccettata. Perché la Sublime Porta, numeri e fatti alla mano, ha costruito e/o sta costruendo avamposti dai porti arabi prospicienti il Mediterraneo a Capo di Buona Speranza, ovverosia è coinvolta attivamente e assertivamente nella corsa all’Africa del 21esimo secolo.

Ankara ha (ri)messo piede nel continente facendo leva sull’impiego di instrumenta regni la cui efficienza è stata collaudata con successo nello spazio ex ottomano: religione, cultura, commercio, difesa e cooperazione allo sviluppo. Religione significa costruzione di moschee e scuole coraniche, cultura consiste nell’apertura di scuole private, centri culturali e nell’erogazione di borse di studio per studiare nelle università turche, difesa equivale a vendita di armamenti, formazione dei quadri e impiego di mercenari, mentre cooperazione allo sviluppo è sinonimo di militarizzazione dello strumento umanitario da parte dell’influente TIKA (Turkish Cooperation and Coordination Agency), che in Africa opera attraverso più di venti centri di coordinamento.

L’alba della Turcafrica

Oggi, anno 2021, la Turchia è legata a più di 35 Paesi sahariani e subsahariani da accordi di cooperazione bilaterale, specialmente attinenti alla sfera militare, ha fatto breccia nelle terre più afflitte dalla scarsità idrica costruendo gratuitamente pozzi e sistemi di depurazione tra Uganda, Senegal, Ciad, Niger e Somalia, sta formando nelle proprie università oltre 14mila studenti africani e ha istituito piattaforme multilaterali per la promozione del dialogo, come il Turkey-Africa Economy and Business Forum, che hanno permesso di aumentare l’interscambio commerciale con il continente dai 5 miliardi e 400 milioni di dollari del 2003 ai 25 miliardi e 300 milioni del 2020.

Gli eventi di cui sopra sono il frutto di oltre un ventennio di sforzi, cominciato nel lontano 1998 con il lancio della Politica di iniziativa africana, nell’arco del quale la Turchia è divenuta un partner strategico dell’Unione Africana, ha costituito consigli per gli affari con 45 Paesi africani su 54 e migliorato sensibilmente la propria esposizione diplomatica in loco, aprendo trenta ambasciate in diciassette anni – passando dalle 12 del 2002 alle 42 del 2019.

Tutto sembra suggerire e indicare, in breve, che l’ambiente politologico dovrebbe ponderare seriosamente l’introduzione di un nuovo lemma nel vocabolario dedicato all’Africa. Perché Françafrique odora di crescente anacronismo e Cinafrica contribuisce soltanto in parte a spiegare le dinamiche trasformative che hanno investito il continente nel nuovo secolo; da qui l’imperativo di cominciare a parlare e scrivere di Turcafrica, la realtà egemonica in divenire che potrebbe giocare un ruolo decisivo in questo teatro di rilevanza nodale nella competizione tra grandi potenze.

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