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Afghanistan game over. Le immagini che ci sono giunte da Kabul del generale Chris Donahue che sale a bordo del C-17A pronto a decollare da Kabul, ultimo trasporto militare, resteranno nella storia e segnano la fine del ventennale conflitto che ha visto impegnate le forze di Stati Uniti e Nato.

Una guerra costata, a Washington, più di 2mila miliardi di dollari. Fanno 300 milioni al giorno, ogni giorno, per due decenni. Oppure 50mila dollari per ciascuno dei 40 milioni di afgani. Questa cifra esorbitante include 800 miliardi in costi diretti per la guerra e altri 85 spesi nell’addestramento dell’esercito afghano sconfitto, che si è sfaldato in una manciata di giorni da quando, all’inizio di luglio, gli Usa hanno abbandonato la base aerea di Bagram facendo così cessare il vitale supporto aereo contro l’avanzata dei talebani. La caduta di Mazar-i-Sharif, storica roccaforte del nord, ha accelerato repentinamente questo processo, e meno di 24 ore dopo anche Kabul soccombeva. Si calcola che i contribuenti statunitensi abbiano dato ai soldati afgani 750 milioni di dollari l’anno in buste paga. Soldi che spesso e volentieri finivano nelle tasche dei signori della guerra o dei governatori corrotti, in un Paese dove la corruzione è endemica. Il fallimento della “nation building” e della democrazia di stampo occidentale. Missione fallita: gli Stati Uniti hanno perso la guerra in Afghanistan, però potrebbero “vincere la pace”, e non solo sul lungo periodo.

Cerchiamo di spiegare meglio perché partendo da due considerazioni. Gli accordi di Doha, firmati dal presidente Donald Trump a febbraio del 2020 coi talebani, hanno permesso agli Stati Uniti di lasciare il Paese senza conseguenze, ma hanno posto anche le basi per il dialogo, che c’è sempre stato durante tutte le fasi della ritirata, anche quelle caratterizzate da tensione. Nelle ore convulse della caduta di Kabul, i militari americani non hanno effettuato operazioni di recupero dei collaboratori afghani, mentre sappiamo che il Regno Unito e forse anche la Francia hanno operato in tal senso, creando non pochi attriti tra alleati: un segnale da non sottovalutare che tra statunitensi e talebani, nonostante 20 anni di guerra, c’è stata volontà di collaborare.

La seconda considerazione riguarda un altro attore, rimasto ai margini: la Cina. Molto recentemente un account Twitter legato ai talebani ha mostrato un video dell’organizzazione uigura Etim (East Turkestan Islamic Movement) che sta combattendo contro la Cina per liberare quello che chiama Xinjiang occupato facente parte del Turkestan.

https://twitter.com/Pakhtunzoy/status/1432872639568113669

Probabilmente si tratta di una fazione etnica più turbolenta degli “Studenti di Dio”: l’organizzazione riflette la complessità del tessuto sociale afghano e, bisogna ricordarlo, comprende anche molti allogeni, ma quello che conta è che nel nuovo Afghanistan dell’Emirato talebano è presente e vivo il sentimento di sostegno alle insurrezioni islamiche, anche al netto della ricerca di appoggio e consenso internazionale.

La Cina si è dimostrata aperta al dialogo coi talebani e sta cercando di capire come questi intendano stabilizzare l’Afghanistan per cominciare la propria silente invasione fatta di infrastrutture e acquisizione di assetti strategici, come le concessioni di sfruttamento delle risorse minerarie afghane.

I talebani, alla ricerca di una legittimazione che per ora manca, stanno mostrando il loro “volto buono”: recentemente hanno anche invitato l’Italia a riaprire la propria ambasciata e a riconoscerli nel consesso internazionale. Sanno che, per costruire un Paese, e quindi mantenere il potere, hanno bisogno degli investimenti dei Paesi occidentali come di quelli di Russia e Cina. Lo sanno anche gli Stati Uniti, che, come detto, hanno avuto rapporti piuttosto cordiali con gli insorti nell’immediato passato, e quindi, molto probabilmente, non passerà molto tempo prima di rivedere un’impresa americana operare in Afghanistan.

Washington, però, potrebbe avere “vinto la pace” non solo per una questione meramente economica. Aver abbandonato l’Afghanistan significa, oltre aver liberato le forze armate da un onere molto pesante, aver aperto un nuovo fronte “islamico” nel cuore dell’Asia Centrale, esattamente nel rimland russo-cinese. Un Afghanistan sotto i talebani, che non sono più quelli di 20 anni fa ma si sono modernizzati dal punto di vista della capacità comunicativa e delle ambizioni politico/diplomatiche – e per questo ancora più pericolosi – significa avere una nuova “Arabia Saudita” sostenente rivolte in una regione geografica dove sono presenti tre dei principali avversari degli Stati Uniti: la Russia, la Cina e l’Iran.

Con Kabul tornata sotto l’islam sunnita estremista dei talebani c’è infatti un’alta possibilità che, oltre il terrorismo, riprendano corpo le istanze separatiste nell’estero vicino di Mosca e che, come abbiamo visto, la ribellione uigura possa inasprirsi, costringendo Pechino a distogliere risorse da altre fronti più importanti per Washington.

La Casa Bianca, vista l’impossibilità di cambiare un Paese che non può essere cambiato, avrebbe scientemente e cinicamente deciso di abbandonarlo in mano ai talebani sapendo che questi sarebbero stati comunque funzionali a generare instabilità in Asia Centrale: una “patata bollente” che, stavolta, tocca a Russia, Cina e Iran gestire. Anche Teheran che negli ultimi anni – almeno dal 2009 – ha sostenuto i talebani altrettanto cinicamente in funzione anti-Usa, si è venuta a trovare con un altro Stato estremista sunnita con cui avere a che fare dopo la wahabita Arabia Saudita, solo, stavolta, direttamente confinante. Potenzialmente un boomerang per gli Ayatollah, stante il sostegno e le relazioni di lungo corso che intercorrono tra i talebani e Riad (oltre che con Islamabad, ovviamente).

Mosca e Pechino, infatti, non brindano alla sconfitta degli Usa e della Nato in Afghanistan come qualcuno potrebbe facilmente pensare: entrambe hanno avviato un meccanismo militare congiunto per poter contrastare il ritorno del terrorismo e la possibile attività di insurrezione. Un segnale della prudenza di Mosca (o del timore) viene anche dalla stampa legata al Cremlino, che continua a mettere una nota in calce agli articoli sull’Afghanistan che ricorda che per Mosca quella dei talebani è un’organizzazione terroristica. Senza considerare che non sta affatto bloccando – per ora – quei pochi aiuti che il Tagikistan sta fornendo al Panjshir ribelle, dove ci sono milizie di ex appartenenti all’esercito afghano che stanno continuando la lotta ai talebani, nonostante Ahmad Massoud, figlio del grande Leone del Panjshir, stia continuando a trattarci.

Washington ha quindi aperto un nuovo fronte ai confini – o immediatamente vicino – dei suoi avversari regionali e globali, ed è possibile che proprio per questo, molto presto, 20 anni di guerra verranno presto dimenticati.