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Il fulcro degli equilibri globali si è spostato, ormai da anni, in Asia dove la regione dell’Indo-Pacifico, ovvero quel vasto tratto di oceano che va dal Mare di Bering sino alle coste orientali dell’Africa, vede il concentrarsi delle maggiori attività economiche e commerciali del mondo, con dei flussi di merci che valgono decine di miliardi di dollari ogni anno.

Qui, almeno da tre lustri, c’è un attore che sta prendendo, lentamente ma costantemente, il palcoscenico: la Cina. Pechino, tramite il progetto One Belt One Road, o Nuova Via della Seta, sta tessendo la sua trama per diventare il primo Paese di riferimento per gli scambi commerciali, scalzando gli Stati Uniti e l’Europa, e per poter “mettere piede” in Paesi dove, fino ad oggi, la presenza cinese era di basso livello o addirittura assente.

Il mare in questa politica è fondamentale: il “filo di perle” fatto da porti che la Cina sta costruendo nell’Indo-Pacifico, le permetterà di avere avamposti commerciali da cui far passare le proprie merci, ma soprattutto basi militari per controllare le rotte marittime. È ormai indubbio, infatti, che le infrastrutture portuali costruite o messe a nuovo dalle società cinesi abbiano un doppio utilizzo: oltre a essere scali per le merci diventano scali per la Pla Navy, la Marina Cinese recentemente diventata la più numerosa del mondo. Pechino, infatti, ha bisogno dello strumento navale per la sua One Belt One Road, pertanto lo sta migliorando e ingrandendo: per controllare le rotte e pattugliare gli oceani dal Mar Cinese Orientale sino al Mediterraneo servono navi ma servono anche porti e cantieri. Il rinnovamento navale cinese è sotto gli occhi di tutti, e preoccupa, prima ancora di Washington, Tokyo e le altre capitali asiatiche che si trovano a dover affrontare l’assertività cinese, sempre più spesso accompagnata dalle forze militari.

Il Giappone, infatti, è in prima linea in questa battaglia che si è aperta da oltre un decennio, e corre ai ripari, soprattutto perché gli Stati Uniti hanno dimostrato, negli otto anni dell’amministrazione Obama, di tenere una linea “morbida” nel contrasto all’espansione cinese, sguarnendo il fronte asiatico (sempre col metro di giudizio americano, sia chiaro) e preferendo delegare il contrasto alla Cina agli Stati asiatici alleati, però aiutandoli economicamente, riservandosi il diritto di saltuarie dimostrazioni di forza per far valere il rispetto della libertà di navigazione, aerea e marittima.

Con l’amministrazione Trump questa linea è cambiata: Washington ha spostato il suo asse dall’Europa, che era al centro della politica estera obamiana, all’Asia ed in particolare ha preso di mira la Cina e la sua politica espansionistica. La rivoluzione dottrinale del Corpo dei Marines, la messa nero su bianco della necessità di costruire più navi da guerra così come dell’esigenza di avere una forza aerea moderna, flessibile e globale, dimostrano come oltre Atlantico il dossier cinese sia preso in seria considerazione, e come gli Stati Uniti abbiano rivolto buona parte della loro attenzione allo scacchiere Indo-Pacifico.

Tokyo ha guardato con sconcerto e timore alla “ritirata” statunitense nell’Indopacifico durante gli otto anni di Obama, e pertanto, pur rimanendo un fedele alleato statunitense (di certo non vogliono rinunciare all’ombrello atomico americano) è corsa ai ripari su più fronti: negli ambienti governativi si ventila l’ipotesi di cambiare la costituzione, la più “pacifista” del mondo, anche se l’opinione pubblica è contraria, si aumentano le spese militari con anche l’acquisizione di armamenti un tempo proibiti (vedere le portaerei classe Izumo), soprattutto si cerca di intessere una rete diplomatica internazionale che leghi i Paesi dell’area per opporre un fronte comune all’assertività cinese.

Già nel 2007 il premier Shinzo Abe, al suo primo, breve mandato, affermò l’esigenza che Stati Uniti, Giappone, India e Australia – i più grandi Paesi dell’area indopacifica – si “consorziassero” stringendo ulteriormente le loro relazioni ed espandendo il livello di cooperazione per opporre una visione geopolitica “occidentale” a quella cinese, in modo da limitare il tentativo di dominazione politica, economica e commerciale di Pechino nella regione e permettere alle altre democrazie asiatiche di avere un altro punto di riferimento forte e stabile.

Nasceva così l’idea del Quad (Quadrilateral Security Dialogue), che però fu messa subito da parte: i tempi non erano ancora maturi. Non per questo, però, Tokyo ha sospeso la sua attività di cooperazione e rafforzamento in campo militare: la presenza nipponica alle esercitazioni Malabar nell’Oceano Indiano, che prima di quell’anno era sporadica, è stata istituzionalizzata.

India e Australia allora erano i due Paesi che più erano preoccupati della minaccia della Cina alla sicurezza marittima e alla libertà di navigazione nella regione indo-pacifica. Queste preoccupazioni comuni hanno rafforzato la necessità di una maggiore cooperazione marittima tra le due nazioni e pertanto hanno iniziato a condurre esercitazioni navali congiunte a cui il Giappone, soprattutto negli anni del premier Abe, ha preso parte attivamente.

Tokyo da questo punto di vista ha seguito la strada aperta da Canberra e Nuova Delhi percependo e facendo sua l’importanza della cooperazione in materia di Difesa nella regione dell’Oceano Indiano e del Pacifico. L’India e l’Australia sono le principali potenze nella regione e sono anche al timone dell’Associazione Regionale dell’Oceano Indiano (Iora), un raggruppamento formale costituito dagli Stati che si affacciano sul quel mare. L’Australia è anche membro permanente del Simposio Navale dell’Oceano Indiano, che riunisce le marine locali della regione, si capisce quindi perché il Giappone ha guardato a queste due nazioni e al suo alleato storico, gli Stati Uniti, per organizzare un fronte comune anticinese con sempre maggior vigore nel corso degli anni.

Questa alleanza quadrilaterale era stata inizialmente ridicolizzata da Pechino, che l’aveva definita, per voce del suo ministro degli Esteri Wang Yi, “schiuma di mare” (ovvero qualcosa di effimero e poco significativo), ma la narrazione è cambiata recentemente, lo scorso ottobre, quando la stessa alleanza è stata definita la “Nato indo-pacifica” col chiaro intento propagandistico di evidenziarne esclusivamente gli scopi militari, quindi cercando di farla passare come “aggressiva”. Queste dichiarazioni denotano il timore cinese di vedersi espropriare dal ruolo che stanno lentamente ritagliandosi di punto di riferimento per i Paesi asiatici, anche in materia di sicurezza, grazie alla continua, lenta ma costante espansione militare nell’area del Mar Cinese Meridionale che gli Stati Uniti non sono riusciti a fermare.

Parole che arrivano, guarda caso, dopo la riunione del Quad a Tokyo in cui il Segretario di Stato Mike Pompeo ha detto che i partner dell’associazione devono “collaborare per proteggere i nostri popoli e i nostri partner dallo sfruttamento, dalla corruzione e dalla coercizione (del Partito Comunista Cinese)”. Questa forma di partnership, però, non è un’alleanza militare e non è nemmeno una Nato asiatica: i partecipanti del meeting di Tokyo hanno consapevolmente evitato di menzionare esplicitamente la Cina perché ciò avrebbe potuto alimentare la narrativa di Pechino che ha presentato all’Indo-Pacifico e al mondo il Quad come un’alleanza militare progettata per tenere a freno la Cina.

Ma la Cina, con le sue azioni recenti e meno recenti, potrebbe aver già forzato le mani dei membri del Quad: dalle sue controversie di confine con l’India alla sua assertività marittima con il Giappone, alle sue lotte diplomatiche ed economiche con l’Australia e alla sua rivalità con gli Stati Uniti, i membri del Quad hanno tutte le motivazioni per diffidare dell’atteggiamento cinese e per fare qualcosa a riguardo.

Il timore di Pechino, non del tutto infondato, è che questa nuova alleanza diplomatica possa attrarre altri Paesi dell’area sottraendoli alla sua influenza: Tokyo da questo punto di vista ha curato molto le relazioni con i Paesi dell’Asean, l’Associazione dei Paesi del Sudest Asiatico, che nonostante abbiano riconosciuto nella Cina il loro avversario principale proprio per via della sua continua e progressiva aggressività, non intendono schierarsi apertamente contro di essa per non essere annoverati tra gli alleati degli Stati Uniti.

Qui proprio Tokyo potrebbe avere gioco facile perché, proprio recentemente, sta dimostrando una politica più autonoma rispetto a quella statunitense, ad esempio arrivando a decidere di rinunciare al sistema missilistico Aegis Ashore e a voler ricontrattare le condizioni economiche per la presenza delle truppe Usa in Giappone, pur restando fedele alleata di Washington. Il Giappone, infatti, potrebbe fare da riferimento per quei Paesi dell’area che non vogliono inimicarsi la Cina avendo degli importanti legami commerciali con essa e al tempo stesso allontanare lo spettro della possibilità di essere fagocitati dal Drago.

La sua ottima gestione della crisi pandemica, oltre ad una politica estera più attiva e “autonoma”, aiuterebbero Tokyo nell’intento di catalizzare altre democrazie asiatiche in un meccanismo di contenimento cinese multilivello: dal campo della sicurezza, a quello economico passando per la libertà di navigazione con l’adesione alla dottrina Free and Open Indo-Pacific che è in aperto contrasto a quanto sta facendo Pechino in questi anni, ovvero il processo di nazionalizzazione di ampi tratti di mare e, presto, di cielo.

La questione del Mar Cinese Meridionale, infatti, è un’ottima freccia nell’arco nipponico: la lenta e progressiva militarizzazione della isole Spratly da parte della Cina e la sempre maggiore attività navale (anche di pesca) in contrasto coi principi della libertà di navigazione e di passaggio, offre a Tokyo la possibilità di fare da intermediario per l’ingresso di altre nazioni, come il Vietnam, le Filippine o la Malesia, nell’associazione quadrilaterale.

Il Sol Levante, quindi, sta risorgendo, proponendosi come attore geopolitico regionale attivo, dopo oltre settantanni di buio, proprio per via dell’aggressività cinese e perché, fondamentalmente, non si fida troppo del suo alleato storico che per otto lunghi anni lo ha fatto sentire “abbandonato” e alla mercé del Drago.

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