10 luglio 2020, una data che è già entrata nella storia. Dopo un mese di attesa, caratterizzato da tensioni diplomatiche con i governi occidentali e con i patriarcati del cristianesimo ortodosso, il Consiglio di Stato della Turchia ha dato il via libera alla riconversione in moschea di Santa Sofia (Ayasofya), il simbolo della cristianità divenuto, dal 1453 in avanti, gioiello dell’islam e dell’impero ottomano.

In molti hanno suggerito che possa trattarsi di una mossa elettorale, progettata per distogliere l’attenzione dei turchi dai problemi economici, ma sposare una simile linea di pensiero significa avere una comprensione superficiale e parziale del contesto (e del modo) in cui Recep Tayyip Erdogan ha dovuto operare onde evitare un colpo di stato da parte dei guardiani del kemalismo e del complesso impianto ideologico che sorregge e guida le azioni del “Sultano” nel mondo.

Il ritorno di Santa Sofia ad essere Ayasofya è soltanto la prima tappa di un lungo viaggio, il cui esito è tutt’altro che scontato, le cui destinazioni finali saranno Gerusalemme e Riad, perché l’obiettivo di Erdogan è la riunificazione dell’islam mondiale sotto la bandiera turca, come ai tempi dell’impero ottomano, e i principali ostacoli a questo disegno sono proprio Israele ed Arabia Saudita.

Lo sguardo su Gerusalemme

Ad alcune ore di distanza dalla sentenza, sullo sfondo di un raduno naturale e genuino di migliaia di fedeli nei pressi del complesso, il presidente turco ha parlato alla nazione per spiegare il significato della riconversione in moschea. Il discorso si è aperto con l’annuncio della riapertura al culto in tempi brevissimi, ovvero venerdì 24 luglio, ha poi assunto la forma di un atto d’accusa nei confronti di coloro che hanno interferito nel processo decisionale e si è concluso nel messianismo.

Erdogan ha spiegato al popolo turco, e in esteso ai musulmani di tutto il mondo, che la “resurrezione di Santa Sofia è precorritrice della liberazione della moschea al-Aqsa”. Quest’ultima si trova a Gerusalemme e sorge sul monte del Tempio, luogo che i musulmani chiamano la “spianata delle moschee”, e riveste un’importanza fondamentale all’interno dell’escatologia islamica.

Il passaggio sulla liberazione della moschea di al-Aqsa è stato tradotto per il pubblico arabo ma è stato oscurato, volutamente eliminato, nella traduzione in lingua inglese del discorso di Erdogan. Il maldestro (o ben studiato?) tentativo della cancelleria turca di indebolire la carica politica del discorso presidenziale non è servito, perché la grande stampa israeliana si è accorta della differenza nelle traduzioni in arabo e in inglese e il dibattito è scoppiato immediatamente, perché quel passaggio, e più nello specifico la sua cancellazione, è stato interpretato come una minaccia.

Il discorso, però, non si è esaurito alla questione di Gerusalemme; è stato molto più ricco e ha spaziato dall’esaltazione del passato ottomano al significato della conversione di Santa Sofia per l’intera umma (ndr. la comunità islamica mondiale): “La resurrezione di Santa Sofia parla della volontà dei musulmani di tutto il mondo di uscire dall’interregno. La resurrezione di Santa Sofia è la riaccensione del fuoco della speranza non soltanto dei musulmani, ma ─ insieme a loro ─ di tutti gli oppressi, le vittime di ingiustizie, i calpestati e gli sfruttati.”

L’errore è credere che il discorso di Erdogan debba destare preoccupazione soltanto in Israele, perché nel corso dei lavori di traduzione sono stati accuratamente eliminati anche i riferimenti al piano di un califfato mondiale. Erdogan, infatti, ha spiegato che la riconversione di Santa Sofia si inquadra nel contesto più ampio di un piano turco mirante al risveglio dell’islam “da Bukhara, in Uzbekistan, all’Andalusia, in Spagna”.

إحياء آيا صوفيا من جديد هي بشارة نحو عودة الحرية للمسجد الأقصى

Gepostet von Recep Tayyip Erdoğan am Freitag, 10. Juli 2020

I segni premonitori

Per secoli l’impero ottomano ha avuto il controllo della Terra Santa, perciò è legittimo e coerente che nel piano di rinascita imperiale perseguito da Erdogan sia dedicato dello spazio al confronto con Israele. Le relazioni fra i due paesi hanno registrato un forte deterioramento negli anni recenti, in particolar modo a partire dall’incidente della Freedom Flotilla nel 2010, e la radicalizzazione delle piattaforme ideologiche che ne guidano le decisioni in politica estera ha senz’altro contribuito ad aumentare le possibilità di uno scontro.

La Turchia, dopo aver curato la fuga dei Fratelli Musulmani dall’Egitto, diventandone il nuovo garante e sostenitore, ha consolidato i legami con le principali realtà dell’insurgenza palestinese, come Hamas, e nei mesi recenti ha iniziato a mostrare delle velleità di collaborazione pratica, concreta e multisettoriale con l’Iran.

Il 15 giugno Il capo della diplomazia di Teheran, Mohammad Javad Zarif, ed il suo omologo turco, Mevlut Cavusoglu, si sono incontrati ad Istanbul per discutere di cooperazione negli affari regionali e nella sicurezza. Il vertice, che è stato definito dai due come “molto produttivo“, si è concluso con la firma di un memorandum d’intesa incentrato su una maggiore collaborazione in campo diplomatico.

La bilaterale ha funto da apripista per altri eventi. Il 15 giugno, Zarif ha approfittato della conferenza stampa per esprimere il supporto diplomatico di Teheran alle azioni turche in Libia. Due giorni dopo i due paesi portavano avanti un attacco coordinato in Iraq avente come obiettivo alcune postazioni del Pkk. Si è trattato di eventi spartiacque, soprattutto quest’ultimo, che hanno portato la cooperazione tra Ankara e Teheran ad un livello senza precedenti e che potrebbero gettare le basi per un sodalizio capace di rovesciare l’attuale divisione del potere in Medio Oriente a detrimento di Israele ed Arabia Saudita.

Ma il segno premonitore più importante è stato sicuramente il lungo editoriale pubblicato il 21 aprile dal Daily Sabah, la voce dello stato profondo turco, un vero e proprio manifesto politico dalle venature anti-israeliane e anti-saudite che fuori dai confini del paese è stato completamente e colpevolmente ignorato.

Le accuse contenute dell’editoriale erano gravissime: Israele, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti avrebbero dato vita ad una “struttura di spionaggio e terrore” che agirebbe in tutto il Medio oriente con la scusante della minaccia iraniana per colpire, in realtà, oppositori politici e potenze rivali, in primis la Turchia.

Esiste un piano per catturare Gerusalemme?

La “liberazione di Gerusalemme” può suonare come la semplice e sempreverde provocazione di un populista islamico, ma la verità è che in Turchia si è discusso di muovere guerra ad Israele e sono stati anche elaborati dei piani. Lo scenario è stato realizzato dal centro di studi e consulenze militari “Sadat“, fondato nel 2012 da Adnan Tanriverdi, un generale allontanato dall’esercito nel 1997 nel corso delle purghe anti-islamiste che sono costate la presidenza del consiglio all’allora primo ministro Necmettin Erbakan, il mentore di Erdogan.

La stretta vicinanza alla presidenza, o meglio al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), hanno spinto cronisti occidentali e turchi a ribattezzare la Sadat l’”esercito ombra di Erdoğan”, in quanto viene ritenuta una vera e propria istituzione parallela creata appositamente per proteggere il nuovo sistema di potere dai colpi di coda del morente stato profondo kemalista.

Il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 è stato sventato anche grazie al perentorio intervento di questo esercito parallelo, i cui membri hanno assicurato il controllo di luoghi-chiave, come i ponti, e combattuto contro i golpisti. Non è una coincidenza che Tanriverdi, ad un mese dal golpe, sia stato nominato consigliere capo militare da Erdogan, ruolo che ha ricoperto sino a gennaio di quest’anno, quando si è dimesso in seguito alle critiche ricevute da una parte del mondo politico per aver dichiarato che la Sadat sta lavorando per accelerare il ritorno del Mahdi, una figura messianica dell’escatologia islamica associata alla fine dei tempi.

La presenza di Sadat è stata segnalata in Siria, dove fornisce supporto diretto ed indiretto all’Esercito Siriano Libero, in Palestina, dove armerebbe Hamas, ed in Germania, dove aiuterebbe i servizi segreti turchi, Milli Istihbarat Teşkilati (MIT), a condurre operazioni coperte e spionistiche, e sarebbe in contatto con pericolose bande di strada come “Germania ottomana“.

A parte la tutela dell’ordine erdoganiano e l’addestramento delle forze armate straniere alle tattiche d’avanguardia nella guerra diretta ed asimmetrica, Sadat svolge ed offre altre funzioni di rilievo: è un think tank, ossia un incubatore di idee.

Uno dei progetti più ambiziosi proposti e sponsorizzati dall’ente è il cosiddetto “esercito dell’islam“. Si tratterebbe di amalgamare le forze armate dei 57 paesi membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) sotto un’unica bandiera, possibilmente turca, per dare vita al più corposo esercito del globo: 5 milioni e 206mila soldati all’attivo. Tale esercito servirebbe un unico scopo: fungere da deterrente contro l’imperialismo occidentale nel mondo islamico ed essere pronto e preparato alla guerra totale qualora necessario.

Sadat ha curato il piano nei minimi dettagli, realizzando anche un’analisi di scenario inerente un conflitto fra l’esercito dell’islam ed Israele. L’analisi prevede un attacco su larghissima scala in stile guerra lampo (blitzkrieg) che, si stima, dovrebbe assicurare una rapida vittoria in una settimana. A quel punto, con Israele completamente sottomesso, il blocco islamico turco-centrico potrebbe trasformarsi in un polo di potere capace di rivaleggiare con l’Occidente e creare un nuovo ordine internazionale.

L’idea del think tank ha colpito Erdogan, che ha tentato di promuoverla in diversi paesi, anche in sede di OIC, ma con scarsi risultati: soltanto la Malesia ha accolto con favore il progetto, mentre il Pakistan ha mostrato un certo interesse. L’appoggio dei due paesi è bastato a convincere Ankara a focalizzare gli sforzi sulla formazione di un triangolo con Islamabad e Kuala Lumpur per spostare il baricentro della civiltà islamica dal mondo arabo al cuore dell’Asia.

Oggi, il progetto di costruire un nuovo ordine mondiale turco-centrico non appare più così folle né così remoto: dopo aver lanciato un vero e proprio assalto all’Eurasia, dal quale nessun paese è stato esentato, e mostrato la propria volontà di potenza con la conversione in moschea di Santa Sofia, adesso potrebbe essere veramente giunto il turno di Gerusalemme.





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