Gli Stati Uniti hanno trovato un accordo con i talebani e hanno consegnato loro l’Afghanistan con un’accelerazione che ha sorpreso anche l’intelligence Usa. A Washington è il tempo delle riflessioni e dei primi redde rationem. Qualcuno probabilmente pagherà per le falle mostrate. Gli Stati Uniti avevano firmato un accordo con i talebani per il ritiro dall’Afghanistan. Eppure sono riusciti a fare apparire questo ritiro come una resa caotica di fronte all’avanzata degli islamisti. Hanno mantenuto in piedi un apparato militare che per venti anni ha provato a costruire un esercito e una forma più o meno fragile di Stato, e invece hanno visto le forze di sicurezza dissolversi davanti agli studenti coranici e gli apparati di Kabul e dei distretti provinciali sparire.
Una sconfitta cui si aggiunge l’immagine del tradimento della società afghana. Un popolo che se da un lato ha subito un’occupazione, dall’altra ha avuto per venti anni anche garanzie di diritti, di una parvenza di democrazia e di ricomposizione delle guerre che per decenni hanno lacerato il Paese.
Il tradimento non è iniziato con la caduta di Kabul. Sbaglia chi crede che sia tutto frutto di questa fuga di agosto davanti all’orda talebana. Tutto è iniziato quando gli Stati Uniti hanno scelto – in piena autonomia – di interloquire con i talebani e di giungere a un accordo a Doha. Tutti sapevano erano perfettamente consapevoli che accettare un accordo con i talebani significava inevitabilmente riconoscerli. E se è vero che nessuno si aspettava una tale piega degli eventi, è altrettanto evidente che da tempo negli States si era deciso di considerare gli uomini di Haibatullah Akhundzada come controparti. Lasciando questi ultimi certi di avere di nuovo un ruolo nella vita dell’Afghanistan.
Trattare con i talebani e rinnegare un certo tipo di guerra (e l’ideologia che l’ha giustificata) è lecito. Nulla vieta in politica di modificare un approccio, specialmente se infruttuoso e dopo due decenni di morti e di fiumi di dollari. Ma il problema è farlo in maniera repentina e confessarlo, come ha fatto Joe Biden, in un modo pilatesco che rischia di creare diverse conseguenze nei rapporti degli Stati Uniti e dell’Occidente con il mondo. Specialmente se messe a confronto con le altre grandi potenze, coinvolte, seppure indirettamente, nel Grande Gioco afghano.
È chiaro che un impegno bellico non possa né debba essere mantenuto in eterno, ed esiste la sconfitta. Ma questo non significa necessariamente rimangiarsi le promesse e tradire gli impegni presi verso un popolo. Dire, come ha fatto Biden, che non c’era l’intento di costruire una nazione ma solo di combattere Al Qaeda è una frase che smentisce anni di negoziati, truppe, scontri e impegni umanitari. La credibilità si basa anche sul sapere mantenere una linea quantomeno con se stessi e verso chi hai abbracciato.
L’esperienza afghana, in questo senso, getta un’ombra sulla credibilità e la capacità di mantenere gli impegni. E implica anche la perdita di quella presunzione di superiorità morale che si considera spesso parte dell’arsenale dell’Occidente nella grande partita a scacchi con chi considera nemico strategico. Basti pensare a chi oggi combatte Cina e Russia e che confida nell’aiuto di Washington: sarà impossibile credere a un impegno effettivo nonostante le promesse. Un dubbio che può essere messo in parallelo con chi ha chiesto aiuto in questi anni alla Russia o anche alla Turchia o all’Iran e a tutti i Paesi considerati estranei in tutto o in parte a un certo mondo. Questi governi o queste forze hanno visto effettivamente arrivare supporto militare e tecnologico contro i propri nemici. E hanno visto soprattutto che queste potenze, specialmente Mosca, hanno sempre considerato il sostegno all’alleato come marchio di fabbrica, a qualunque costo.
Certo, ogni potenza ha i suoi scopi pragmatici e non fa beneficenza. La Russia fa ciò che serve alla Russia, al pari degli Stati Uniti e di tutti i Paesi. Anche mettere in parallelo guerre diverse e Stati diversi è un gioco rischioso. Ma l’immagine, in questo mondo, ha un peso enorme. Sia per propaganda sia per sostanza. Nella guerra culturale che l’Occidente (e gli Stati Uniti in particolare) pensa di condurre contro i suoi avversari, il precedente afghano è un monito per chiunque cercherà di avvicinarsi al blocco guidato da Washington. E rischia di essere invece un aiuto insperato verso le grandi potenze che si avvicineranno a nuovi scenari bellici o a nuovi partner e potranno offrire il loro supporto senza essere macchiati da un’onta recente. Mosca non ha tradito Damasco: Washington non può dire lo stesso con quella parte di Kabul che confidava nella fine di un incubo.
Il tradimento afghano rischia di essere un conto salato che pagherà non solo chi ha sbagliato i calcoli dell’avanzata talebana, ma anche la politica estera americana.