Aleksei Navalny, colui che dai tempi della rivoluzione di neve del lontano 2011 è divenuto il principale punto di riferimento dell’Occidente nella Federazione russa, è stato insignito del prestigioso Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Trattasi di un riconoscimento dedicato al celebre dissidente sovietico Andrej Dmitrievič Sakharov, istituito nel 1988, che premia l’operato di giornalisti ed attivisti in contesti difficili, come teatri di guerra e dittature.
Che Navalny fosse uno dei papabili all’edizione 2021 del Premio era noto da tempo, anche alla luce della visibilità ottenuta con lo scandalo del presunto avvelenamento e della successiva incarcerazione in patria, ma l’evento non deve trarre in inganno gli osservatori delle relazioni internazionali. Perché il Premio Sakharov, più che un riconoscimento imparziale ed apolitico, è un termometro con il quale è possibile misurare la temperatura geopolitica del momento in Occidente, E quella temperatura, da parecchi anni, è indicativa della presenza di una condizione febbrile provocata da un’ossessione: la Russia di Vladimir Putin.
Il premio Sakharov a Navalny, ecco perché
Navalny, che si trova attualmente detenuto per il reato di appropriazione indebita, nella giornata del 20 ottobre è stato insignito dal Parlamento Europeo del rinomato Premio Sakharov per la libertà di pensiero. A lui, il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, ha riconosciuto il merito di aver lanciato una guerra senza sosta alla corruzione del sistema putiniano, una guerra “che gli è costata la libertà e per poco la vita” e della quale Bruxelles riconosce pienamente il valore ed il contributo alla causa della democratizzazione della Russia.
Con il premio Sakharov andato a Navalny, quest’anno salgono a due i cittadini russi insigniti di palme per il loro attivismo antigovernativo. Perché prima di lui, a inizio ottobre, il giornalista Dmitry Muratov del quotidiano indipendente Novaya Gazeta aveva ottenuto il premio dei premi: il Nobel per la pace. Mentre della natura (sempre più) politica del Nobel per la pace si discute da anni, o meglio da decenni, la conoscenza del grande pubblico del Sakharov continua ad essere molto più limitata, perciò è necessario ripercorrerne l’evoluzione.
Un premio “contro” la Russia?
Una disamina delle edizioni del Sakharov dai primi anni Duemila ad oggi, cioè da quando all’era della sommessa e instabile Russia di Boris Eltsin è subentrata l’epoca della rivalsa trainata da Putin e dai siloviki, è l’unica maniera che un lettore degli accadimenti internazionali possiede al fine della comprensione della natura politica di questo premio. Una natura politica, spropositamente orientata verso la russosfera e i suoi satelliti, che emerge chiaramente da un riepilogo delle edizioni degli ultimi diciassette anni:
- Il premio è andato per tre volte agli oppositori dell’ordine lukashenkiano: nel 2004, quando è stato consegnato all’Associazione bielorussa dei giornalisti, nel 2006, quando è stato vinto da Aleksandar Milinkievič, e l’anno scorso, quando è stato dato al fronte antigovernativo capeggiato da Svetlana Tikhanovskaya.
- Il premio è andato due volte in Russia: nel 2009, quando è stato dato all’organizzazione nongovernativa Memorial, e quest’anno.
- Il premio è andato una volta in Ucraina: nel 2018, quando è stato vinto dal regista ed attivista politico antirusso Oleg Sentsov. Sentsov, all’epoca, stava espiando una condanna a vent’anni di carcere in Russia per aver presumibilmente partecipato ad atti di terrorismo e sabotaggio in Crimea, ed è stato liberato soltanto quattri anni dopo, nel 2019, nel contesto di uno scambio di prigionieri.
- Il premio è andato una volta in Venezuela: nel 2017, quando è stato vinto dall’opposizione antigovernativa dell’autoproclamato presidente Juan Guaidó.
- La Russia e i suoi satelliti – che sono una cosa ben diversa dagli alleati –, in sintesi, sono stati “colpiti” dalla giuria del premio Sakharov sette volte in diciassette anni – una media di una volta ogni due anni e mezzo –, ovverosia più di qualsiasi altro cosmo geopolitico. Neanche la Repubblica Popolare Cinese, toccata da questo premio soltanto due volte nel medesimo arco di tempo, si avvicina alle prestazioni della galassia russa.
Il “potere” del premio Sakharov
Hanno avuto certamente luogo delle edizioni in cui il premio Sakharov è andato a personaggi privi di ombre, e per ragioni aventi a che fare letteralmente con la veridica libertà di pensiero, come nel 2005, quando fu consegnato all’arcivescovo angolano Zacarias Kamwenho, o come nel 2016, quando fu assegnato a due vittime dell’autoproclamato Stato Islamico, Nadia Murad Basee e Lamiya Aji Bashar, ma i fatti convergono verso l’evidenza di una crescente politicizzazione.
Forse perché viziato dalla dura lex del nomen omen, o forse perché manifestazione della radicata russofobia che caratterizza la weltanschauung delle élite occidentali sin dalle epoche del primo impero britannico e di Napoleone, il Sakharov sembra essere, numeri alla mano, un premio contro la Russia. Un premio che, chiaramente, non ha modo di condizionare ciò che si muove attorno al Cremlino, ma la cui elevata valenza politica – accompagnata da un’altrettanto alta visibilità mediatica – gli conferisce un potere rilevante: quello di infierire ulteriormente sulla già bassa qualità delle relazioni tra le due Europe.
Nell’altra Europa, quella che comincia a Mosca e termina a Vladivostok, non a caso, è già scoppiato un dibattito ad uso e consumo del Cremlino. Perché la gente comune, più che i decisori politici, si sta chiedendo come sia stato possibile che la giuria, posta davanti alla scelta tra Navalny e un coraggioso collettivo di donne afghane in lotta per i diritti dell’universo femminile nel pericoloso Emirato islamico dei talebani, abbia decretato la vittoria del primo.
Se l’attivista avesse vinto un’altra edizione, forse, l’opinione pubblica russa gli avrebbe anche dato ragione, perché a conoscenza delle sue indagini anticorruzione, ma quest’anno, anche agli antiputinisti più tenaci, il premio Sakharov è apparso parziale, sbilanciato e politicamente motivato. Un assist improvviso, inaspettato e non pianificato, che il Cremlino utilizzerà sicuramente per i propri fini, tentando di mostrare alla propria società le debolezze e le ipocrisie del moralismo occidentale.