In questi giorni di grande tensione nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale fra l’asse greco-cipriota e la Turchia, Recep Tayyip Erdogan ha rispolverato un sogno personale svelato al pubblico per la prima volta dieci anni or sono: riportare il Paese nel club delle grandi potenze mondiali entro il 2023, l’anno in cui cadrà il centenario della proclamazione della Repubblica da parte di Mustafa Kemal “Ataturk”.

Il fatidico 2023

Il 30 agosto si è tenuto il 98esimo anniversario della battaglia di Dumlupinar, l’evento che ha posto fine alla guerra d’indipendenza turca, creando le premesse per la pacificazione del Paese e il successivo stabilimento della repubblica. La commemorazione è particolarmente sentita in tutta la nazione e richiama in ugual modo anche le fasce più “laiche” dell’opinione pubblica, ovvero quelle avvezze al patriottismo, fungendo annualmente da appuntamento in cui incontrano kemalisti ed erdoganiani per celebrare il “Giorno della Vittoria”.

Quest’anno il 98esimo anniversario della battaglia di Dumlupinar è caduto in un periodo di svolta per la Turchia: per la prima volta dal 1922 sussiste la possibilità di tornare ai fasti perduti dell’epoca pre-ottocentesca, ovvero prima che la Sublime Porta si trasformasse nel celeberrimo “malato d’Europa”, e riacquisire lo status di grande potenza.

Il discorso con cui Erdogan si è rivolto al pubblico raccoltosi come da tradizione all’Anitkabir, il mausoleo di Ataturk, si è incentrato proprio su questo punto: la rinascita della Turchia. I passaggi più importanti del presidente sono stati impressi nel libro sul memoriale di Dumlupinar contenuto all’interno del mausoleo, un gesto estremamente significativo e del quale non dovrebbe essere trascurata la portata, considerando la rilevanza giocata dal simbolismo nella nazione turca.

Questo è uno dei passaggi che si è deciso di preservare indelebilmente affinché venisse trasmesso alla posteriorità: “I nostri traguardi cruciali in diversi campi sono l’indicazione più chiara della nostra volontà di proteggere i diritti e gli interessi del nostro Paese. Siamo determinati ad entrare nel 2023, dove celebreremo il centesimo anniversario della nostra Repubblica, come un Paese più forte, più indipendente e più prospero in termini diplomatici, politici, militari ed economici”.

Parlando alla platea, composta grossomodo da ufficiali delle forze armate ed esponenti delle istituzioni, Erdogan ha invece dichiarato: “La Turchia non cederà al linguaggio del ricatto, dell’intimidazione e delle minacce, in particolare nel Mediterraneo orientale, e continuerà a difendere i diritti derivanti dal diritto internazionale e dagli accordi bilaterali”.

Inoltre, nel tentativo di attualizzare le vicende di Dumlupinar, il presidente turco ha aggiunto: “Con la vittoria del 30 agosto [1922] fu dichiarato al mondo intero, ancora una volta, che queste terre sono la nostra patria eterna. Non è una coincidenza che coloro che cercarono di escludere il nostro Paese dal Mediterraneo orientale, e cercarono di invaderci, un secolo fa, siano gli stessi invasori [di oggi]”.

A che punto è il piano?

Il 2023 si preannuncia un anno spartiacque e non soltanto per la Turchia, ma per il mondo intero. Il motivo è semplice: Erdogan sta riuscendo a realizzare ogni obiettivo che si è proposto pur in presenza di un’economia fragile, di un’industria della difesa in costruzione e di diverse altre vulnerabilità, come la dipendenza energetica dall’estero e i numerosi teatri di conflitto aperti, perciò non è irrealistico supporre che una volta risolte tali contraddizioni e debolezze la Turchia possa effettivamente ambire al titolo di grande potenza, troneggiando sull’Eurafrasia da protagonista anziché da spettatrice.

Quando il piano di rinascita nazionale fu svelato al pubblico, nel lontano 2010, Erdogan godeva di un potere molto limitato all’interno del Paese, obbligato a muoversi a passi piccoli e calcolati in quanto circondato dalle reti di potere formate dai seguaci del predicatore Fetullah Gulen e dai seguaci di Ataturk. Un passo falso avrebbe significato seguire le orme dell’ex primo ministro Necmettin Erbakan, padrino del nazionalismo islamico del nuovo secolo e mentore di Erdogan, che fu costretto alle dimissioni nel 1998 dalle forze armate.

Il sogno di grandezza di Erdogan è stato scritto con il supporto del fu ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, uno dei più grandi diplomatici che abbiano servito l’interesse nazionale di Ankara nell’ultimo ventennio, e prevede diversi punti, fra i quali l’entrata nel club delle dieci economie più grandi del pianeta, il raddoppio del pil, l’entrata nell’Unione Europea ed una partecipazione in prima linea negli affari internazionali.

Derubricato a tempo indefinito il proposito di aderire all’Ue, che comunque è stato posticipato per ragioni tattiche, è evidente che dei progressi significativi sono stati compiuti nelle altre sfere. L’economia turca è impegnata in una scalata dei vertici globali sin dagli anni 1960 e la tendenza ha registrato un’accelerazione a partire dai primi anni 2000. L’intromissione di eventi come l’inflazione galoppante e gli attacchi speculativi contro la lira turca ha determinato il rallentamento della corsa, ma non l’ha fermata, ed entro il 2023 è previsto l’ingresso di Ankara nella cerchia delle economie dal valore superiore al triliardo di dollari.

È innegabile, invece, il successo riscosso nel campo della diplomazia. La Turchia è una potenza con cui è obbligatorio discutere in sede negoziale in una serie di teatri critici per la sicurezza internazionale: Libia, Somalia, Palestina, Siria, Mediterraneo orientale, Egeo. Nei tempi recenti è stato dato un impulso significativo all’espansione nello spazio postsovietico, dall’Europa orientale all’Asia centrale, e nella sinosfera, entrando nello Xinjiang, ed è stato creato un protettorato sulla maggior parte delle minoranze islamiche stanziate in ogni angolo del pianeta, dal Chiapas messicano alle isole secessioniste delle Filippine.

Le ripercussioni di questa proiezione di potere globale, che ha toccato ogni continente ed è ancora in fase embrionale, si manifesteranno con forza soltanto negli anni a venire ma è possibile intravedere alcuni segni già oggi: la promozione del neo-ottomanesimo ha trasformato la Turchia nella potenza-guida del mondo islamico, ed Erdogan nel suo condottiero, mentre la diffusione del turanismo e del panturchismo sta portando alla riscrittura della divisione del potere in Eurasia a favore della Sublime Porta.

Dalla Gagauzia a Tuva, nel cuore della Siberia, brulicano i movimenti autonomisti e secessionisti di ispirazione panturchista, ampiamente sovvenzionati da Ankara, che rischiano di riaprire vecchi conflitti e di accenderne di nuovi. E nonostante l’apparente collaborazione con Pechino nella lotta al separatismo nello Xinjiang, non va dimenticato che è proprio ad Ankara che hanno trovato rifugio gli ideologi del Movimento del Turkestan Orientale e che opera il Congresso Uiguro Mondiale.

Il 2023 si avvicina e il sogno di risorgere dalle ceneri come un’araba fenice sembra essere estremamente realistico. Quell’anno dovrebbe anche diventare realtà il progetto di emanciparsi dalla dipendenza energetica dall’estero, per via dell’entrata in funzione della centrale nucleare di Akkuyu e del possibile inizio dell’immissione nel mercato nazionale dei 320 miliardi di metri cubi di gas recentemente scoperti nel mar Nero.

Ultimo ma non meno importante, il destino ha voluto che nel centenario della Repubblica si tengano le prossime elezioni generali, durante le quali i cittadini turchi saranno chiamati a rinnovare la presidenza e la Grande Assemblea Nazionale. Se dovesse essere rieletto – che non è un’ipotesi remota alla luce dei numerosi successi conseguiti – per la Turchia sarebbe l’inizio di una nuova era basata su un ritorno al passato e per Erdogan si tratterebbe della consacrazione definitiva al titolo di nuovo padre della nazione, una nazione risorta.





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