La Turchia è stata a lungo criticata dall’opinione pubblica islamica e dagli alleati occidentali, in primis gli Stati Uniti, per aver mantenuto una posizione di basso profilo nella questione della presunta persecuzione degli uiguri musulmani nello Xinjiang e aver persino aiutato le autorità cinesi a rintracciare e deportare esponenti della dissidenza e/o combattenti arruolatisi nelle file dello Stato Islamico.

Le prese di posizione hanno avuto luogo, ma sono state deboli e accuratamente formulate per non irritare Pechino, ma un recente intervento di Mevlut Cavusoglu, il ministro degli esteri turco, sembra suggerire che panturchismo e nazionalismo pan-islamico potrebbero condurre ad un ribaltamento della linea politica, prevalendo sulla realpolitik e sull’interesse economico.

La presa di posizione di Cavusoglu

Il 6 ottobre il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha ordinato ad un comitato turco in azione presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) di presentare in modo formale le preoccupazioni di Ankara circa il trattamento degli uiguri nello Xinjiang. Nel dettaglio, il comitato ha riferito all’Onu che “pur rispettando l’integrità territoriale della China, il nostro Paese e la comunità internazionale si aspettano dalle autorità cinesi che i turchi uiguri e le altre minoranze islamiche dello Xinjiang vivano in pace, come cittadini uguali della Cina, e che le loro identità religiose e culturali siano rispettate e garantite”.

Il documento prosegue, spiegando che “la Turchia, in quanto Paese legato ai turchi uiguri da legami culturali, religiosi ed etnici, sta monitorando con preoccupazione i rapporti sulle violazioni dei diritti umani degli uiguri e delle altre minoranze musulmane”. Il comitato, oltre all’elaborazione e all’invio del messaggio alla delegazione cinese, ha anche ricordato a Pechino che dovrebbe rispettare le otto raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale, prodotte nell’agosto 2018, le quali “sono valide ancora oggi e [che] dei passi devono essere fatti a questo proposito”.

Il documento termina con un’affermazione ambivalente: la Turchia continuerà a ricercare un dialogo costruttivo con la Cina ma, al tempo stesso, lavorerà in sede internazionale, a fianco di enti come l’Onu e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, per assicurarsi che vengano difesi i diritti degli uiguri.

Sul tema, verso fine settembre, era intervenuto anche il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), il cui portavoce, Omer Celik, aveva invitato la Cina a “distinguere tra terroristi e civili innocenti” e a permettere agli uiguri di “contribuire allo sviluppo, alla pace sociale, alla prosperità e alla sicurezza [del Paese]”.

Gli interessi turchi nello Xinjiang

In futuro potrebbe materializzarsi una visita di alto livello di ufficiali governativi turchi nella regione ribelle dello Xinjiang avente l’obiettivo di confutare le gravi accuse di pulizia etnica e persecuzione religiosa che stanno venendo lanciate dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali. Si tratta di un evento auspicato dallo stesso governo cinese, che ha inoltrato l’invito a Cavusoglu nei mesi scorsi, ma del quale non si sa nulla: nonostante gli scambi verbali, le due diplomazie non avrebbero intenzione di andare a fondo.

Se il Partito Comunista Cinese (PCC) permettesse l’arrivo di una delegazione dell’Akp nello storico cuore del panturchismo militante dell’impero celeste, potrebbe subire le conseguenze di un effetto boomerang, ossia una nuova stagione di tensioni interetniche e terrorismo. La Turchia, d’altra parte, potrebbe capitalizzare nel breve periodo, migliorando la propria immagine di custode e guardiana dell’islam e dei popoli turchi, ma nel medio-lungo verrebbe danneggiata dal raffreddamento dei rapporti bilaterali con la Cina, il cui denaro si è rivelato fondamentale per l’economia nazionale negli ultimi dieci anni, garantendo vitalità al mercato del lavoro e nuovi sbocchi per l’import-export.

La Turchia, in breve, è ad un bivio: proteggere gli uiguri o curare esclusivamente gli affari; in entrambi casi si tratta di un interesse nazionale, pur essendo radicalmente diverso il ritorno economico. Il motivo per cui lo Xinjiang è nell’elenco delle priorità dell’agenda estera turca – e non soltanto dell’Akp – è che gli uiguri appartengono al mondo turco e, di conseguenza, la loro difesa è un cardine del panturchismo.

La difficoltà nell’elaborare un’agenda per lo Xinjiang è relativa al fatto che il controllo pervasivo e multilivello del Pcc non consentono degli spazi di manovra e le medesime possibilità di infiltrazione nel territorio e nelle istituzioni locali sono significativamente ridotte. Questa realtà è il motivo per cui Ankara sta muovendosi con difficoltà e lentezza nel contesto uiguro, appoggiandosi alla rete delle organizzazioni internazionali, supportando il lobbismo di attori nonstatuali come il Congresso Mondiale Uiguro e mantenendo vivo il sentimento separatista offrendo riparo ai cugini dello Xinjiang.