Il 2023 sarà ricordato dai posteri come il momento della verità per Recep Tayyip Erdoğan, che, fra premierati e presidenze, è al potere dal 2003. Vent’anni che gli sono serviti per rifare la Turchia a immagine e somiglianza di nuovi padri fondatori, come Necmettin Erbakan, per riportarla nel club delle grandi potenze e per reintrodurla nella Storia.
Il 2023 è l’anno del centesimo compleanno della nuova Turchia, laica e repubblicana, ed Erdoğan spera che possa essere anche l’anno della sua rielezione alla presidenza. Intreccio di date dall’alto valore simbolico, che potrebbe significare altri cinque anni di mandato e che lo consegnerebbe definitivamente nell’Olimpo dei re turchi. Il 2023 come anno del destino della Turchia e di Erdoğan.
La variegata opposizione turca si è (ri)unita per impedire la vittoria di Erdoğan, ché un altro quinquennato equivarrebbe allo smantellamento definitivo della Turchia costruita da Mustafa Kemal, e confida nella di lui débâcle causata dalla capacità di attrazione di consensi di una coalizione multipartitica. Ma le sfide e le incognite sono tante.
Tutti contro Erdoğan
Il terremoto di febbraio è costato alla Turchia più di 45mila vite, causando danni alle infrastrutture pari – si stima – a 34 miliardi di dollari, e ha generato un moto di indignazione dentro il paese che, spera la coalizione dei volenterosi anatolici, potrebbe scalzare Erdoğan dal trono. Perché accusato di aver chiuso un occhio sui sacchi edilizi, traendo profitto da ciò che ha facilitato cotanta distruzione.
Nella consapevolezza di gareggiare con un candidato estremamente popolare, il preferito degli abitanti dell’Anatolia profonda e l’uomo della provvidenza degli imam, l’opposizione ha optato per quella che è stata ritenuta l’unica via percorribile: la riesumazione di una larga coalizione, l’Alleanza Nazionale, rivelatasi fruttuosa nel passato recente.
L’Alleanza Nazionale sfiderà l’Alleanza del Popolo, l’intesa a tre del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), in due appuntamenti elettorali, previsti tra maggio e giugno, che condurranno al rinnovo di Parlamento e Presidenza. Ma la reale brama delle due alleanze è l’accesso alla Presidenza, potenziata a detrimento del Parlamento con il referendum costituzionale del 2017.
Il piano dell’opposizione
Sei partiti – CHP, DEVA, DP, İYİ, GP, SP –, tre ideologie – europeismo, kemalismo, socialismo –, un candidato – Kemal Kılıçdaroğlu. Il piano dei Sei è basato su un modello già collaudato alle elezioni locali del 2019 – sei grandi municipalità su sette, incluse Istanbul e Ankara, sottratte all’AKP –, che vede nella forza del numero e nella serpeggiante stanchezza verso l’erdoganismo i segreti del successo.
L’obiettivo è di trasformare una vittoria data per certa da Erdoğan, che ha selezionato personalmente il giorno dell’appuntamento per le presidenziali – anniversario della prima sconfitta elettorale dei repubblicani, il 14 maggio 1950 – e non ha voluto posticipare la chiamata alle urne, in una roboante sconfitta. Obiettivo che soltanto un uomo, allo stato attuale delle cose, sarebbe in grado di conseguire: il carismatico Kılıçdaroğlu.
Il Gandhi turco contro il Sultano
Scelto come lo sfidante ufficiale di Erdoğan nella giornata del 6 marzo, al termine di lunghe e difficoltose trattative fra i Sei, Kılıçdaroğlu è il capo de facto dell’opposizione turca dal 2010 ed è un repubblicano di sinistra.
Sebbene sia stato ribattezzato il “Gandhi turco” dalla grande stampa occidentale, da BBC a Repubblica, Kılıçdaroğlu è più un pragmatico che un idealista e può essere considerato, in realtà, la faccia laica ma pur sempre nazionalista di quella medaglia che è il nazionalismo turco – con l’altra faccia, quella islamista, rappresentata da Erdoğan.
Laico e di sinistra, che vanta nel curriculum una vicepresidenza presso l’Internazionale socialista, eppure Kılıçdaroğlu ha supportato la riconversione in moschea di Ayasofya ed è vicino ai famigerati Lupi Grigi, dei quali ha fatto il saluto in più occasioni. Difensore dei diritti umani, in particolare delle minoranze etniche, eppure Kılıçdaroğlu è tra i più ferventi sostenitori della linea dura nei confronti dei rifugiati siriani, che ha promesso di deportare in massa qualora vincesse le elezioni. A parole paladino dei curdi, nei fatti sostenitore delle operazioni militari della presidenza Erdoğan in patria e nella Siria settentrionale. Di Mahatma Gandhi può avere il carisma e il pragmatismo, questo sì, ma non il pacifismo.
Realista e trasformista, doti necessarie ad ogni politico che aspiri alla grandezza, Kılıçdaroğlu è un uomo che sa come sottrarre voti ad AKP e alleati, come dimostrato dai flirt coi Lupi Grigi, dalle battaglie contro i rifugiati siriani e dall’ambigua posizione sulla questione curda, ed è per questo motivo che è stato scelto per guidare la coalizione dei Sei.
La Turchia divisa
A poco più di due mesi dall’attesa chiamata alle urne, che in ogni caso consegnerà Erdoğan alla storia – come politico turco più influente del primo quinto del Duemila o come nuovo padre fondatore della Turchia –, l’opinione pubblica dell’Anatolia è spaccata sul voto.
I sondaggi del dopo-terremoto dipingono un paese profondamente diviso e difficile da fotografare. Alcuni campioni di rispondenti indicherebbero l’Alleanza Nazionale come in vantaggio sull’Alleanza del Popolo – 47,6% delle preferenze contro il 35,1% (ALF Research) –, mentre altri sosterrebbero l’esatto contrario – 44% per il blocco dell’AKP contro il 27,3% per i Sei (Centro per gli studi di impatto sociale).
La Turchia è divisa, in parte perché ancora alle prese coi postumi di un devastante terremoto e in parte perché l’Alleanza Nazionale è un calderone in grado di stuzzicare le fantasie di elettori tra loro molto diversi: laici e religiosi, liberali e conservatori, europeisti e nazionalisti. È un guazzabuglio che, come evidenziato da Ragıp Soylu di Middle East Eye, offre all’opinione pubblica l’inusuale vista di “un’alleanza improbabile” formata da “un repubblicano alevita”, cioè Kılıçdaroğlu, “introdotto [nel CHP] da un islamista”, “ex compagni di Erdoğan e un ultranazionalista”.
L’Alleanza Nazionale offre una Turchia simil-erdoganiana, ma senza Erdoğan, e potrebbe essere questa la ragione per cui i sondaggi sembrano impazziti: l’opinione pubblica, oltre che polarizzata, è estremamente indecisa. Perché se è vero che Erdoğan può aver stufato porzioni del proprio elettorato, lo è altrettanto che è una garanzia di continuità, stabilità e sicurezza in un’era di grande incertezza, sfide e volatilità. Ed è nelle tormente che la nave ha bisogno del suo capitano – le parlamentari ungheresi del 2022 insegnano.