28 marzo 1985. Per la prima volta un presidente americano, Ronald Reagan, visita il New York Stock Exchange a Manhattan celebrando il legame tra Wall Street e uno dei principali esponenti negli anni Ottanta, insieme alla premier inglese Margaret Thatcher, del neoliberismo economico. Il presidente repubblicano che corteggiava le élite economiche e affermava che “il governo non è la soluzione ai nostri problemi, il governo è il problema” avrebbe oggi qualche difficoltà a riconoscere il suo partito.

A scattare infatti una foto della situazione in cui versa la relazione tra il partito dell’elefante e le grandi imprese americane, Wall Street e le cosiddette Big Tech, ci ha pensato il Wall Street Journal che ha analizzato i dati dell’organizzazione indipendente Center for Responsive Politics. Gli esponenti repubblicani accettano sempre più finanziamenti di piccoli donatori e si fanno portatori di istanze contrarie a quelle solitamente propugnate dal mondo economico in direzione del libero commercio.

Secondo il Journal, oggi il Great Old Party è meno dipendente che mai dai contributi economici provenienti dai colossi industriali americani. Infatti i finanziamenti derivanti dai PAC, i Political Action Committee, comitati politici che permettono di ricevere generose donazioni, spesso non rintracciabili, da aziende e milionari, sono ai minimi storici da trent’anni a questa parte.

I numeri parlano chiaro. Alle elezioni di metà mandato del 2022 solo 42 dei repubblicani eletti alla Camera, aveva ricevuto almeno il 40% dei finanziamenti da PAC collegati ai giganti dell’economia americana. Alle elezioni del 2016 erano 128 i repubblicani che avevano raggiunto tale soglia. Sempre nel 2022, Kevin McCarthy, l’attuale leader alla Camera del partito repubblicano, ha ricevuto solo il 3% dei fondi per la sua campagna elettorale da PAC legati al mondo economico, mentre seu anni fa tali entrate rappresentavano più del 40% del totale. Non solo, se in passato lo speaker della Camera si era adoperato per far approvare leggi business-friendly oggi guida l’opposizione a tutte le misure ben viste da Wall Street.

Il travaso verso i democratici

Se i finanziamenti a favore del partito dell’elefante da parte del Big Business sono diminuiti, i contributi a favore dei democratici sono invece aumentati. Alle elezioni di midterm del 2022 i repubblicani hanno ricevuto 189 milioni di dollari dai cosiddetti corporate PAC, in sensibile calo dai 260 milioni del 2016. I democratici sono invece passati dai 135 milioni del 2016 ai 155 milioni di dollari dello scorso anno.

Questi dati tradiscono un’antipatia crescente del partito repubblicano nei confronti di un ampio settore del mondo economico americano considerato troppo liberal. A livello ideologico anche se la maggioranza dei repubblicani al Congresso dichiara di sostenere ancora politiche favorevoli alla libera impresa, alcuni dei temi un tempo più cari al partito democratico, come ad esempio l’intervento federale per aumentare gli stipendi per i “colletti blu” e l’abbassamento del costo dei farmaci, vengono difesi da sempre più esponenti del GOP al Congresso. Se per molti repubblicani della vecchia scuola l’intervento del governo federale è ancora visto con sospetto, per capire quanto questo partito stia attraversando una profonda metamorfosi sull’argomento è interessante ascoltare come la pensa il senatore dell’Ohio, J.D. Vance. Uno dei maggiori esponenti dell’ala populista che ha lanciato un’Opa ostile su quello che è sempre più il partito di Trump e sempre meno quello di Reagan dichiara infatti che l’unico interlocutore “in grado di porre un freno alle compagnie tech è il governo federale”.

L’inizio dello scollamento

All’origine dello scollamento tra il partito rappresentante dei conservatori e il mondo delle grandi imprese, tecnologiche e non, vi è la crescente ingerenza e presa di posizione dei colossi americani nel dibattito politico e nella vita sociale americana. Il loro schierarsi su posizioni progressiste su tematiche riconosciute come divisive in una società caratterizzata da una forte polarizzazione – aborto, lotta alla discriminazione razziale, difesa della comunità LGBTQ+, diritto a possedere armi da fuoco – aveva già determinato contrasti durante l’amministrazione Trump e, da allora, la tensione non ha fatto che aumentare. La guerra lanciata dalla destra Usa contro quella che viene definita in maniera sprezzante “agenda Woke” si è infatti trasferita dai corridoi di Capitol Hill ai sobborghi residenziali americani.

Alcuni esempi eclatanti di lotte tra repubblicani e grandi imprese vengono dalla Florida e dal Texas. Nel Sunshine state è in corso una battaglia legale tra il governatore della Florida, nonché candidato alla presidenza, Ron DeSantis e Walt Disney che punta a ridefinire il potere delle grandi imprese, il controllo del governo e la libertà di parola. La Disney si è opposta a una legge statale che vieta le lezioni in classe sull’orientamento sessuale nei primi anni di scuola, una politica ribattezzata “don’t say gay”. DeSantis ha risposto cercando di togliere i poteri di “autogoverno” della Disney sui terreni dove sorge il suo parco a tema. Lo scontro legale continua e sta già condizionando la corsa alla Casa Bianca del 2024.

In Texas il governatore repubblicano Greg Abbott, insieme al parlamento statale, ha vietato di fare affari con BlackRock, JPMorgan Chase e altre banche, “colpevoli” di boicottare gli investimenti nell’industria petrolifera per destinarli ad imprese impegnate a sviluppare fonti energetiche rinnovabili. BlackRock è stata inoltre accusata da 19 Stati governati dal Great Old Party di usare i soldi dei pensionati per la sua “agenda da attivista”.

Il ruolo “politico” delle aziende

Le battaglie in difesa dei temi progressisti sono cominciate subito dopo l’elezione di Trump e stanno continuando anche sotto la presidenza Biden. Negli ultimi anni ad alimentare l’impegno sociale delle grandi imprese sono state le ripetute stragi di massa, le polemiche sulle cure per i minori transgender e la sentenza della Corte Suprema che abolisce il diritto all’aborto a livello nazionale. Il loro crescente impegno sociale, secondo molti esperti, si può spiegare anche con la collocazione geografica delle grandi imprese in aree urbane tendenzialmente più vicine ai democratici. La presenza poi nelle aziende del Big Business e del Big Tech di giovani istruiti che, tendenzialmente si riconoscono in politiche liberal, accresce nelle stesse imprese la necessità di creare un ambiente il più possibile inclusivo. È inevitabile che si venga dunque a creare una divisione culturale con un partito repubblicano sempre più percepito come difensore di una classe operaia e rurale, tendenzialmente meno istruita e disorientata dai cambiamenti apportati dalle tecnologie e dalla lotta al cambiamento climatico che ne determina una visione più conservatrice della società.

Riferendosi al mondo della grande industria Usa, il senatore repubblicano del Missouri Josh Hawley ha dichiarato di non vedere ragione “per cui dovremmo prendere soldi da questa gente”. La senatrice del Texas Marsha Blackburn rincara la dose accusando le grandi aziende di essersi approfittate del popolo americano e affermando che “è arrivato il momento di renderne conto”. Non stupisce che i rappresentanti di diverse imprese americane manifestino un certo nervosismo nel continuare a schierarsi su temi progressisti e, in incontri a porte chiuse con lo speaker McCarthy, avrebbero manifestato l’intenzione di ridurre la loro esposizione su tali questioni. Non sappiamo come Reagan commenterebbe lo stato attuale del partito che ha guidato alla vittoria negli anni Ottanta. Citando però liberamente la sua massima, qualcuno oggi potrebbe dire che il partito repubblicano non è la soluzione. Il partito repubblicano è il problema.

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