Grand Ethiopian Renaissance non è lo slogan o l’appellativo dato alla politica del premier Abiy Ahmed Ali, insignito a dispetto dei pronostici la scorsa settimana del Premio Nobel per la pace, ma è il nome di uno dei progetti più controversi e, nello stesso tempo, cruciali dell’intero panorama geopolitico africano. Si tratta, infatti, della diga sul Nilo, conosciuta con l’acronimo di GERD, la cui realizzazione il governo di Addis Abeba ha commissionato nel 2011 all’impresa italiana Salini Impregilo, che dovrebbe rappresentare un vero e proprio punto di svolta per l’intera economia dell’Etiopia e per il suo ruolo nel Corno d’Africa, ma che è al centro di annose dispute con l’Egitto che, nell’area, svolge la parte di potenza dominante.

L’area interessata dal progetto è situata a circa 500 Km a nord ovest della capitale Addis Abeba, nella regione di Benishangul–Gumaz lungo il Nilo Azzurro. Al termine dei lavori, come recita testualmente il sito web della società di costruzioni, Grand Ethiopian Renaissance Dam sarà la diga più grande d’Africa: lunga 1800m, alta 155m e del volume complessivo di 10,4 milioni di metri cubi. Il costo iniziale dell’opera, a carico del cliente Ethiopian Electric Power, è stimato in 3,4 milioni di euro.

Il progetto è nella sua fase finale, con l’entrata in produzione prevista per il 2020 e la piena operatività per il 2022; con la costruzione della diga, capace di produrre una potenza di 6.000 megawatt, l’Etiopia diventerebbe il più grande esportatore di energia elettrica dell’intero continente africano e il governo punta sui forti ricavi per sviluppare la rete ferroviaria e, soprattutto, per realizzare un importante numero di nuove zone industriali.

La disputa con l’Egitto

Ma l’Egitto teme fortemente che la diga ridurrà il flusso d’acqua ricevuto dal fiume Nilo, che fornisce vera e propria linfa vitale a tre Paesi, partendo dalle sorgenti sugli altipiani dell’Etiopia, attraversando i deserti del Sudan per poi giungere ai campi coltivati e alle cisterne del Paese delle piramidi. L’Egitto dipende per il 90% della propria acqua dolce dal Nilo e pretende che il gettito d’acqua ricevuto dal bacino della GERD sia di 40 miliardi di metri cubi, mentre l’Etiopia ne garantisce la prosecuzione di 35.

“L’Egitto è dipendente dal Nilo per il proprio approvvigionamento idrico – ci ha spiegato in esclusiva William Davison, Senior Analyst per l’Etiopia dell’International Crisis Group – e teme che il GERD lo riduca; ma basa le sue recriminazioni su trattati obsoleti, a cui paesi a monte del fiume come l’Etiopia non hanno partecipato. L’Etiopia rivendica il diritto di utilizzare le proprie risorse idriche e non riconosce la legittimità dei trattati, che non ha firmato. Considera il GERD un progetto vitale che segna una nuova era della politica del Nilo e che può aumentare significativamente l’approvvigionamento energetico nazionale e regionale e l’accumulo di acqua”.

Per quanto riguarda una possibile risoluzione della disputa, Davison porta la posizione propria e dell’International Crisis Group: “La soluzione è che le due nazioni e tutti i paesi del Nilo firmino l’accordo quadro di cooperazione e istituzionalizzano la cooperazione in modo da condividere informazioni sulle precipitazioni, i flussi fluviali, i livelli delle riserve e i progetti pianificati. Ciò consentirà loro di progettare strategie di sviluppo reciprocamente vantaggiose e di sincronizzare le operazioni delle loro dighe idroelettriche e di altri progetti”.

La situazione politica interna

Il primo ministro Abiy Ahmed Ali ha preso in mano il governo dell’Etiopia il 2 aprile 2018, dopo due anni di scontri con centinaia di morti e una fase di stallo politico che aveva portato alle dimissioni del premier Haile Mariam Desalegn, segno dell’indebolimento dell’etnia tigrina, classe dominante nel Paese fino a quel momento. A diciotto mesi dall’insediamento di Abiy, la situazione in Etiopia è ancora lontana dal potersi definire stabile o, quantomeno, sotto controllo, come ci spiega William Davison: “La situazione politica è difficile. La liberalizzazione promette cambiamenti significativi e duraturi, ma ha aperto la sfera politica a molti attori diversi, alcuni dei quali hanno disaccordi fondamentali, come a proposito del sistema federale basato sull’etnia. Mentre alcuni gruppi politici come Sidama e Oromo apprezzano molto l’autonomia etnico-regionale che offre, altri pensano che il sistema stia allontanando gli etiopi gli uni dagli altri e creando conflitti. Ci sono anche molte lamentele, come quelle degli Amhara, che credono di essere state le vittime sotto il sistema federale, anche se le altre regioni percepiscono l’Amhara come un potere precedentemente privilegiato. La conseguente crescita del nazionalismo Amhara ha portato a un’estrema violenza politica ad alto livello nello scorso giugno: ci sono inoltre notevoli tensioni tra Amhara e Tigray, nominalmente per il territorio tigrino che è rivendicato da alcune fazioni Amhara”.

La pace con l’Eritrea

A un anno dai trattati di pace siglati con l’Eritrea, per i quali Abiy Ahmed ha ricevuto il prestigioso riconoscimento assegnato dal Comitato per il Nobel norvegese, abbiamo provato a tracciare un bilancio con l’analista Davison. Al clamore e all’ottimismo per la riapertura delle frontiere e la ripresa delle relazioni bilaterali, infatti, ha fatto seguito una nuova chiusura dei confini: “La situazione – spiega – è ancora positiva, ma i progressi sono lenti e sussistono notevoli ostacoli. Il partito al potere nel Tigray è un attore cruciale e la sua piena cooperazione è necessaria per normalizzare pienamente le relazioni e risolvere le questioni di frontiera con l’Eritrea. Ma le sue relazioni con il resto della coalizione di governo e le autorità federali in Etiopia sono molto cattive. C’è anche un punto interrogativo sul fatto che il Presidente eritreo Isaias sia desideroso di passare rapidamente alla piena normalizzazione dei rapporti con l’Etiopia, poiché a quel punto non ci sarebbe più una giustificazione per la sospensione della costituzione eritrea: questo significherebbe che il suo regime dovrebbe affrontare sfidanti, cosa che non accade nella situazione attuale”.

Il Nobel e il possibile impatto negativo

Appena avuta la notizia del Nobel per la Pace assegnato al premier Abiy Ahmed Ali, abbiamo contattato norvegese Kjetil Tronvoll, docente di Studi sui conflitti e sulla pace al Bjørknes University College e Direttore di Oslo Analytica, uno dei massimi esperti mondiali sull’Etiopia e sul Corno d’Africa in generale: “Il premio legittima gli sforzi di Abiy, ma non credo che necessariamente darà uno slancio al processo di pace” ci ha detto. Un processo che, dopo gli squilli di tromba e le strette di mano del 9 luglio 2018, con l’apertura delle frontiere tra Etiopia ed Eritrea di due mesi dopo, si è arenato. I confini sono stati nuovamente chiusi, per porre un freno al flusso impressionante di profughi che spingono per scappare dal regime di Isaias. Non è un caso che il Nobel sia stato assegnato solamente a uno dei due contendenti nel conflitto, Abiy appunto, senza che Isaias sia stato neanche menzionato nella motivazione del Comitato Norvegese: “Per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea”.

“Per andare avanti con il processo di pace – spiega Tronvoll – serve che entrambe le parti in causa lavorino nella stessa direzione”, cosa che non sta avvenendo in questo momento.

La questione, inoltre, coinvolge il particolare assetto costituzionale dell’Etiopia, con quel federalismo spinto al quale abbiamo già accennato, per il quale “l’Eritrea – spiega il professore norvegese – non è in conflitto con l’Etiopia, ma con la regione del Tigray”, coinvolta in dispute territoriali con Asmara. Abiy non ha interesse a inimicarsi il Fronte di Liberazione del Tigray (TPLF) e, inoltre, ha dovuto anche fronteggiare un tentato golpe nello stato di Amhara, altro stato caldo, con il Sidama che il 13 novembre voterà un referendum per l’autonomia. Da questa situazione è chiara la frase che ci ha detto William Davison: “Prima di pensare alla politica estera e all’idea di raggiungere un ruolo importante nel Corno d’Africa, l’obiettivo di Abiy dovrebbe essere quello di stabilizzare internamente l’Etiopia. Unire il Paese, prima di guardare fuori”.

Il Nobel assegnato ad Abiy, come spiega chiaramente il professor Tornvoll, può addirittura avere un impatto negativo sul processo di pace e sulla situazione interna dell’Eritrea: “Isaias potrebbe sentirsi offeso per il fatto di non essere stato premiato. Il rischio è che, quindi, il dittatore possa assumere un atteggiamento più ostile nei confronti di Abiy, poiché sente che il premier etiope avrebbe in qualche modo rubato la sua parte di gloria. Inoltre, il premio conferisce legittimità a coloro che vogliono riforme democratiche e cambiamenti anche in Eritrea; quindi Isaias sarà portato a governare ancora più duramente per reprimere chiunque possa usare il premio contro la sua politica e sostenere il cambiamento”. La pace, insomma, è ancora lontana, anche se il Nobel è già arrivato.

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