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Boris Johnson ha passato il testimone a Liz Truss come primo ministro britannico dopo la fine delle primarie del Partito Conservatore nella giornata del 6 settembre. E visto alla luce della nomina dei ministri da parte dell’ex segretario del Foreign Office del governo di Johnson, neoconvertita alla causa della Brexit divenuta figura di punta tra i suoi fedelissimi e autrice di una fulminea scalata a Downing Street, il discorso di congedo alla carica di primo ministro pronunciato prima di volare a Balmoral per presentare alla Regina Elisabetta II le dimissioni appare come un arrivederci, non un addio.

Il governo di Liz Truss è un governo di Brexiter duri e puri. Falchi neoliberisti e thathceriani, dunque più radicali sul tema economico-fiscale di BoJo, ma prima di tutti fautori della sovranità della Gran Bretagna e ostili all’Unione Europea. Tanto che la Truss, a mo’ di spot personale, negli ultimi giorni del governo Johnson insisteva per stracciare il protocollo nordirlandese che crea una dogana interna al Regno. Soprattutto, è un governo che rimescola molto le carte spostando diversi ministri di secondo piano dell’era Johnson a ruoli primari ma in generale premia chi a luglio non ha abbandonato Johnson pur dimissionario. Prima fra tutti la Truss, rimasta al Foreign Office e vincitrice delle primarie da ministro degli Esteri in carica.

Johnson nel suo discorso ha in particolar modo elogiato chi è rimasto fino in fondo. Insieme, ha dichiarato, “abbiamo gettato le basi che resisteranno alla prova del tempo” per un nuovo Regno Unito, sia “riprendendo il controllo delle nostre leggi che avviando nuove infrastrutture vitali”. Edificando, in definitiva, “una grande muratura solida su cui continueremo a costruire insieme, aprendo la strada alla prosperità ora e per le generazioni future”. Johnson ha aggiunto: “sosterrò Liz Truss e il nostro nuovo governo in ogni fase del percorso”. Perché, in fin dei conti, è un po’ anche il suo governo. Un governo johnsoniano, in tutto e per tutto. In cui scompare la vecchia guardia dei Conservatori liberali e emergono i Conservatori “sovranisti”. Di cui Johnson si ritiene ancora il leader legittimo.

Johnson rivendica i successi di chi sottolinea la necessità di chiudere una parte della sua carriera, ma non il suo cursus honorum politico. Rivendica, dopo molte fughe in avanti da uomo solo al comando, il lavoro di squadra compiuto, orgoglioso di aver governato con ” persone che hanno portato a termine la Brexit”, per poi consegnare “il primo vaccino anti-Covid in Europa” e “organizzare quelle prime forniture di armi alle eroiche forze armate ucraine, un’azione che potrebbe benissimo aver contribuito a cambiare il corso della più grande guerra europea degli ultimi ottant’anni”. Johnson sa che il governo Truss non avrà veri frontman e mira a esserlo lui stesso, dettando l’agenda alla sua storica fedelissima che gli succederà: consolidamento della ripresa economica, ferreo sostegno a Kiev con una scelta vigorosamente atlantica e nessun arretramento sul governo delle conseguenze della Brexit.

Johnson rivendica il patto Aukus, il fatto di aver reso, a sua detta, il Regno Unito un Paese i cui diplomatici, servizi di sicurezza e forze armate sono ammirati a livello globale, i piani ambiziosi su tecnologia e ambiente. Sa che Liz Truss dovrà necessariamente partire dalla sua agenda di governo e che i paragoni con la sua leadership saranno inevitabili. E con una dotta metafora lascia intendere che ci sarà un secondo tempo per lui in politica. “Ora sono come uno di quei razzi booster che ha adempiuto alla sua funzione”, ha scherzato: “rientrerò dolcemente nell’atmosfera e ammarerò invisibilmente in qualche angolo remoto e oscuro del Pacifico”, aggiungendo poi che “come Cincinnato sto tornando al mio aratro, e offrirò a questo governo nient’altro che il più fervente sostegno”.

Amante degli studi classici, Johnson non può però non sapere che dopo aver guidato i Romani nella Battaglia del Monte Algido (458 a.C.) contro gli Equi e aver riportato una vittoria schiacciante da dittatore pro-tempore il comandante Lucio Quinzio Cincinnato decise di tornare al suo aratro, cioè al governo delle sue tenute agricole, salvo poi accettare un secondo mandato emergenziale per salvare, una volta di più, Roma, diciannove anni dopo. Nel 439 a.C. Cincinnato, su indicazione del fratello Tito Capitolino Barbato al suo sesto consolato, venne eletto dittatore per un incarico semestrale per la seconda volta al fine di parare il tentativo del ricco plebeo Spurio Melio di farsi nominare “re” (titolo aborrito dai romani dopo la caduta dei Tarquini). Cincinnato, forte del sostegno di Gaio Servilio Strutto Ahala, nominato magister equitum, eliminò la minaccia posta da Spurio Melio alle istituzioni repubblicane, con l’usurpatore che finì sconfitto e ucciso. Johnson, come Cincinnato, lascia intendere che è pronto a tornare al suo aratro ma si prepara al ritorno in  campo qualora il Regno Unito avesse nuovamente bisogno di lui.

E – metaforicamente – appare chiaro che a suo avviso il momento potrebbe arrivare presto. Con un Partito Conservatore spaccato e che dovrà lottare per arrivare integro al voto del 2024, un governo fragile e i Laburisti dieci punti oltre i Conservatori (40% contro 29%) nei sondaggi Johnson è certo che presto Roma, ovvero il suo partito, lo cercherà nuovamente per fermare il suo declino. E la dinamicità del discorso di congedo lo lascia intendere. Johnson lascia a un governo più “johnsoniano” dell’esecutivo che ha guidato fino alle dimissioni di massa dei ministri a luglio e studia da novello Cincinnato. Pronto a essere richiamato se la situazione politica per un Partito Conservatore ormai plasmato a sua immagine in assenza dello stratega della Brexit dovesse farsi pericolante.

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