Il Corno d’Africa è un punto interrogativo della geopolitica. Poco ricco di risorse, con conflitti interni di diversa natura e portata, ma fondamentale per la sua posizione geografica, tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden e giù lungo le rotte dell’Oceano Indiano verso l’Africa meridionale, la regione è diventata negli anni una vera e propria attrazione strategica per tutte le potenze globali.
Una dinamica che si vede più o meno in tutti gli Stati che compongono la regione, e in particolare nel piccolissimo Gibuti e in Somalia, diventati veri e propri hub strategici con basi di diversi Stati coinvolti in questo nuovo “grande gioco” africano. In questi Paesi possono notare in maniera cristallina le ambizioni e le diverse sinergie e rivalità che compongono non solo la specifica regione, ma in generale tutte le aree circostanti, fino a rendere il Corno d’Africa una sorta di cartina di tornasole degli schemi politici internazionali.
La corsa per la Somalia
Il collasso della Somalia, con un conflitto in cui sono stati impegnati anche i militari italiani, ha rappresentato, secondo molti osservatori, il punto di non ritorno del Corno d’Africa. La Somalia, come Stato quasi tecnicamente fallito, è stato nel tempo contraddistinto da una crescita esponenziale della povertà ma anche del terrorismo di matrice islamica, confermando nel corso dei decenni come un bastione della milizia di Al Shabaab. In questo contesto di implosione del Paese, in cui Mogadiscio era quasi scomparsa come capitale di un Paese considerato come un interlocutore internazionale.
La presenza di milizie islamiste ha fatto sì che gli Stati Uniti coinvolgessero nella guerra al terrore anche il territorio somalo, con Africom (il comando Usa per l’Africa) a gestire operazioni più o meno segrete per colpire gli avamposti dell’organizzazione islamista. Tuttavia, la presenza americana non ha rappresentato la vera svolta della corsa alla Somalia, quanto l’arrivo nel Paese di una potenza esterna alla regione ma che nel tempo ha costruito una politica di penetrazione estremamente efficace: la Turchia. Recep Tayyip Erdogan è stato il primo leader a sbarcare a Mogadiscio quando la Somalia di fatto era considerata fallita, e questo ha portato nel corso degli anni a far sì che Ankara si trasformasse nel vero “protettore” delle sorti della Somalia, con basi militari turche nel Paese (la più grande proprio nella capitale), investimenti in porti e aeroporti e con il radicamento degli apparati di intelligence.
Accanto alla presenza turca, si è però sviluppato nel corso degli anni un altro interessamento internazionale, quello degli Emirati Arabi Uniti. Un esempio di come il Corno d’Africa, anche per vicinanza geografica, sia diventato un luogo di proiezione delle rivalità interno al Golfo e al mondo delle grandi potenze a maggioranza islamica. Abu Dhabi, coinvolta nella guerra in Yemen per alcuni anni, si è interessata in particolare a due regioni, il Somaliland e il Puntland. Nel tempo, il processo di radicamento si è esteso anche per la concomitante rivalità con la Turchia e con quello che era ritenuto il maggiore alleato di Ankara nella regione, il Qatar. Un triangolo di rivalità che in Somalia ha trovato uno dei suoi maggiori laboratori.

La pirateria
Le coste somale sono state per molti anni – e lo sono ancora in parte – un vero e proprio santuario della nuova pirateria. Questo fenomeno, fatto di organizzazione criminali più o meno estese, era legato principalmente all’elevato numero di navi cargo che solcano le rotte al larbo della Somalia sia dall’oceano Indiano verso il Mar Rosso sia che percorrono le rotte nord-sud lungo la costa orientale africana.
La recrudescenza del fenomeno della pirateria ha portato nel corso del tempo numerose potenze a essere direttamente coinvolte nel controllo delle rotte marittime. Le missioni sono state e continuano a essere sia di matrice nazionale che internazionale, con l’Europa che, in questo senso, svolge un ruolo particolarmente attivo in particolare grazie a Eunavfor Somalia, nota come Operazione Atalanta, che dal 2008 rappresenta un pilastro della strategia regionale.
Gibuti
Gibuti è uno Stato minuscolo in cui sono presenti circa otto basi di potenze straniere. Nel corso degli ultimi 13 anni, nel piccolo Paese sullo stretto di Bab el Mandeb, oltre alla presenza francese, in loco dall’era coloniale, sono sorte basi degli Stati Uniti (la base di Camp Lemmonier), del Giappone, dell’Italia, avamposti usate da diverse potenze europee, si è inserita anche l’Arabia Saudita, e infine, ultima ma non per importanza, è sorta a Gibuti la prima base militare all’estero della Cina.
Il controllo di un “collo di bottiglia” che unisce Mar Rosso (quindi Mediterraneo) e Oceano Indiano, unito alla presenza, al di là del mare, della Penisola araba e quindi della guerra in Yemen, ha reso sempre più evidente l’importanza strategica di Gibuti. Un Paese che si è così costruito una vera e propria diplomazia attraverso le concessioni di basi militari alle potenze straniere, e che oggi è considerato il simbolo della nuova corsa globale per tutto il territorio del Corno d’Africa.

Etiopia, caos e rivalità
La guerra del Tigrai e la complessità del sistema etnico etiope hanno creato quasi inevitabilmente un terreno adatto alla corsa di varie potenze extraregionali interessate alle sorti di Addis Abeba e del Corno d’Africa. Il conflitto, in cui l’Occidente è apparso formalmente neutrale, pur non mancando di condannare anche lo stesso governo per attacchi contro la popolazione, si è dimostrato la conferma di rapporti sempre più stretti di alcune potenze con le sorti etiopi. In particolare, ad accrescere la propria posizione all’interno del Paese sono state Cina e Turchia (e in parte Russia), che hanno sostenuto il governo nazionale nel conflitto civile che per anni ha insanguinato il Paese.
La crescente importanza dell’Etiopia, dovuta anche al fattore demografico di un Paese che è il secondo per popolazione in Africa, ma anche per la sua essenza di corridoio che unisce l’area orientale del Continente a quella centrale, si è vista non solo con l’avvicinamento di Pechino e Ankara ai destini di Addis Abeba, ma anche con la scelta di quest’ultima di volersi unire ai Brics, l’alleanza ritenuta alternativa all’Occidente. La notizia, che è stata confermata a giugno del 2023, segna certamente uno spartiacque nella diplomazia etiope, ma anche la prova di un pieno coinvolgimento della Cina e di Mosca nel destino di uno dei Paesi più complessi della regione.

Yemen e Sudan, le guerre che premono sul Corno d’Africa
Ad aggiungersi alle consolidate e drammatiche conflittualità interne al Corno d’Africa, la regione vive anche sotto la pressione di due guerre che lo circondano e in cui viene parzialmente coinvolto. Il primo riguarda il più risalente conflitto in Yemen: guerra in cui sono coinvolte quelle potenze arabe, in primis Arabia Saudita, che hanno un estremo interesse non solo a penetrare nello scacchiere del Corno d’Africa, ma anche a imporre una propria stabilità nella regione che eviti effetti sulle coste arabe. Il conflitto a poche miglia dalle coste di Gibuti e somale, in sostanza al di là di Bab el Mandeb e del Golfo di Aden, ha reso evidente l’utilità di creare avamposti sul lato africano anche alle potenze coinvolte nel conflitto o interessate a controllare cosa accadesse nel Paese in guerra. D’altro canto, questa dinamica si è vista anche nei movimenti navali nell’area, con un interesse costante non soltanto da parte di Riad e Abu Dhabi, ma anche di Israele e Iran, che attraverso Bab el Mandeb fanno transitare le proprie unità impegnate nella cosiddetta “guerra ombra”. E Teheran, alleata degli Houti, è diventata un attore non secondario in questo tipo di traffico.

La guerra in Sudan, esplosa in questo anno ma che si unisce al caos successivo alla caduta del dittatore Bashir, rappresenta poi un ulteriore elemento di instabilità per l’intera regione. E che si ripercuote inevitabilmente sul Corno d’Africa anche perché non solo geograficamente prossimo, ma anche perché coinvolge indirettamente gli interessi etiopi – in particolare per il Nilo – e quelli di chi tenta un controllo sulle coste del Mar Rosso. Va ricordato, infatti, che sulle coste sudanesi non solo sono presenti hub commerciali cinesi, anche forti interessi emiratini, oltre alla ben nota querelle sulla base navale russa di Port Sudan e il sogno mai sopito della Turchia con Suakin.
Un “nuovo attore: l’India
Nel corso degli ultimi anni, per quanto riguarda il Corno d’Africa si deve registrare anche l’ingresso di una potenza solo apparentemente estranea a quel mondo, ed è l’India. Nuova Delhi, grazie al suo essere “dirimpettaio” della regione al di là dell’oceano, ha reso sempre più evidente un proprio graduale, per quanto lento, interessamento nell’area. Come spiegato da Ispi, l’India al momento non ha nel Corno una presenza di grandi investimenti infrastrutturali né una presenza militare. Sotto quest’ultimo aspetto, si appoggia in particolare a esercitazioni insieme ai partner europei. Tuttavia, è fondamentale il doppio binario dei crediti e della manodopera indiana nell’area che, insieme alla costante presenza di navi negli scali regionali, la rende un partner tendenzialmente ben accetto e quasi naturale. Un tema fondamentale soprattutto se si considera l’aspetto della rivalità con la Cina: elemento che conferma l’essenza del Corno d’Africa come palcoscenico delle rivalità mondiali.