L’Unione europea non sta affatto riuscendo a gestire la crisi dovuta al Coronavirus. Gran parte del continente continua a rimanere in lockdown, gli Stati membri sono furiosi con la Commissione europea, e in buona parte dell’Eurozona il 2021 sembra destinato ad essere un anno tanto difficile quanto lo è stato il 2020. Gli Stati membri più a sud dell’Ue rischiano di perdere una stagione estiva cruciale, mentre il continente intero non tornerà presumibilmente ad alcun tipo di “normalità” prima del 2022.

Una falsa partenza

Fin dal principio di questa crisi è sempre stato più che chiaro che l’unica via d’uscita sarebbe stata un’efficace distribuzione dei vaccini. Per fare ciò sarebbe stato necessario muoversi rapidamente, lavorando con imprese private ed esperti del settore. Tuttavia, l’Unione europea è caduta presto vittima di forze maggiori, che includono sia il Regno Unito che gli Stati Uniti.

Già dalla prima settimana di febbraio questi fallimenti erano già visibili agli occhi di tutto il mondo. Mentre Israele aveva già somministrato 59 dosi di vaccino ogni cento persone, la Gran Bretagna “della Brexit” aveva somministrato 15 dosi, e gli Stati Uniti 10. L’Unione europea invece ne aveva somministrate meno di tre. È ormai ampiamente assodato in tutta l’Ue che questo sia stato un fallimento colossale.

I fallimenti della Commissione europea

Tali fallimenti riflettono gli insuccessi interni all’Unione europea o, più specificatamente, alla Commissione europea.

Piuttosto che assumere esperti del settore che supervisionassero gli accordi sul vaccino con le compagnie farmaceutiche, come ha fatto la Gran Bretagna della Brexit, l’Unione europea si è servita di negoziatori commerciali. Questa decisione ha portato l’Ue a concentrarsi prevalentemente sul prezzo dei vaccini anziché domandarsi quando questi sarebbero stati effettivamente consegnati. Quando è diventato evidente che le compagnie farmaceutiche stavano distribuendo i vaccini agli altri stati che si erano mossi più velocemente, Ursula von der Leyen ha cercato di dare la colpa alle aziende farmaceutiche piuttosto che al penoso processo decisionale dell’Unione europea.

La controversia si è poi intensificata e ha esposto, strada facendo, i fallimenti della Commissione. In un bizzarro momento di reazione spropositata, la Commissione europea ha considerato per un attimo di innescare dei provvedimenti di emergenza nell’accordo sulla Brexit, che avrebbero stabilito un confine fra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord così da bloccare l’esportazione dei vaccini nel Regno Unito. Sebbene la Commissione europea abbia poi fatto marcia indietro su tale decisione, era già stato comunque inflitto un importante danno politico all’organizzazione, indebolendone la reputazione globale.

La questione si è poi incredibilmente protratta quando sia Ursula von der Leyen che Emmanuel Macron hanno contestato apertamente l’efficacia dei vaccini britannici. Ironicamente, le persone che avevano sempre messo in guardia più di tutti su politiche “post-fattuali” e “fake news” stavano in quel momento incoraggiando le persone a diffidare dei vaccini che stavano salvando loro la vita. Una ricerca dell’Università di Oxford ha prontamente confutato la tesi di Von der Leyen e Macron.

Emmanuel Macron e Ursula Von der Leyen

Uno dei peggiori momenti dell’UE

Un pessimo episodio, sia per la Commissione europea che per l’Unione europea, tanto da aprire il sipario su problemi più gravi nel fulcro del progetto. In una democrazia “normale”, Ursula von der Leyen sarebbe stata accusata da un leader eletto dell’opposizione e avrebbe avuto piena responsabilità delle persone a lei sottostanti. Invece nell’Unione europea, dove il presidente della Commissione europea è nominato e non democraticamente eletto, meccanismi di questo tipo non sono possibili.

Per i britannici, la crisi è un potente reminder del motivo per cui hanno votato la Brexit. Quando il Paese si unì per la prima volta alla Comunità europea nel 1975, la ragione principale per cui la gente volle farne parte fu puro pragmatismo economico, ovvero la convinzione che l’integrazione europea avrebbe funzionato. Al giorno d’oggi, tuttavia, la stessa tesi è molto più ardua da sostenere.

Crescenti divisioni tra gli Stati membri

Nel corso degli ultimi vent’anni gli Stati più a nord dell’Eurozona, come Germania e Paesi Bassi, hanno progressivamente compiuto passi in avanti rispetto agli Stati meridionali, dove invece il tenore di vita, i salari e la crescita si sono fermati, specialmente per gli elettori con reddito minore. E mentre l’Unione europea si è da poco dedicata ad un Recovery fund da 750 miliardi di euro che rappresenta circa il 4% del Pil, quasi tutti gli esperti sanno che, con gran parte del continente ancora in lockdown ed i vaccini gestiti miseramente, tale cifra non si avvicinerà minimamente a quella necessaria.

Più che altro, la crisi sembra essere destinata a versare benzina sulle diseguaglianze esistenti al centro dell’Eurozona, e a lungo andare ciò avrà ripercussioni politiche.

Per gli elettori della Brexit tutto questo aumenta la convinzione per cui l’Ue si sia espansa oltre le proprie possibilità, non debba rendere conto a sufficienza del proprio operato dal punto di vista democratico, e non abbia i poteri politici e fiscali che sarebbero necessari per risolvere crisi di questo livello. Il coronavirus ha rimarcato questa visione e infatti, nel bel mezzo della pandemia, solo il 30% dei cittadini britannici ha affermato di avere un parere “favorevole” sull’Ue. Prima del coronavirus alcune persone si chiedevano se i britannici avrebbero cambiato idea e provato a “rientrare” nell’Ue, Nessuno lo pensa più.

Il Covid-19 è la terza crisi consecutiva gestita miseramente dall’Ue

Quella del coronavirus è la terza crisi di fila gestita miseramente dall’Ue, dopo la crisi del debito sovrano successiva alla Grande Recessione e l’emergenza profughi scoppiata nel 2014 (che non è ancora del tutto stata risolta). Così come non lo sono state le persistenti problematiche relative allo “stato di diritto” fra est ed ovest, con i governi polacchi ed ungheresi più forti che mai. E se si guarda oltre ciò che appare in superfice si incontrerà, da parte del pubblico, una diffusa sfiducia nei confronti delle istituzioni Ue. Per esempio, secondo gli ultimi dati dell’Eurobarometro soltanto il 38% degli italiani si fida del Parlamento europeo (in confronto al 55% dei tedeschi).

I beneficiari di tutto questo saranno i partiti populisti, che restano una forza concreta in molti stati membri Ue. Sebbene non vi sia alcun dubbio che alcuni populisti abbiano sofferto questa crisi, altri invece come il Partito della Libertà nei Paesi Bassi o Fratelli d’Italia sembrano andare meglio nei sondaggi. Nel 2021 abbiamo già visto il movimento “Chega” in Portogallo ottenere buoni voti alle elezioni presidenziali, mentre in un recente sondaggio sulle imminenti presidenziali del prossimo anno in Francia, Marine Le Pen detiene il 48% contro il 52% di Macron. Ed è questo il livello di supporto per Le Pen più alto mai registrato. L’arrivo ancora più recente del primo ministro Draghi in Italia avrà probabilmente ripercussioni sugli elettori italiani che vogliono la democrazia, e non la tecnocrazia. Così come con Mario Monti ci fu il contraccolpo che spianò la strada al Movimento Cinque Stelle, allo stesso modo è probabile che ci sia per Draghi. Nel mezzo dell’ultima crisi che ha scosso l’Europa, non è difficile intravedere già i semi che germoglieranno durante la prossima ondata di rivolte politiche contro Bruxelles.





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