“Follow the money”, ovvero “seguite i soldi”: solo così si spiegano alcune decisioni sulla politica estera americana. L’ultima, in ordine di tempo, riguarda la conferma, da parte del Dipartimento dell’Energia Usa, di aver approvato il trasferimento di tecnologia nucleare americana all’Arabia Saudita solamente 16 giorni dopo il barbaro assassinio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi. E questo nonostante i report dell’intelligence americana individuassero come mandante dell’omicidio il principe Mohammad bin Salman.
La conferma della decisione americana è stata data nelle scorse ore dal senatore democratico Tim Kaine: “Ci sono voluti più di due mesi prima che l’amministrazione Trump rispondesse a una semplice domanda, ovvero perchè ha trasferito esperienza nucleare delle aziende americane all’Arabia Saudita. La risposta è stata scioccante”. E poi: “L’impazienza di Trump di dare ai sauditi tutto ciò che vogliono sta alimentando la tensione in Medio Oriente”.
È chiaro che i sauditi dotati di un arsenale nucleare costiuirebbero una minaccia – che certamente non verrebbe lasciata cadere – non solo per l’Iran e i suoi alleati sciiti ma anche per il Medio Oriente tutto.
Gli Usa e i Paesi del Golfo
Solamente poche settimane fa, Donald Trump ha deciso di aggirare il Congresso per vendere oltre otto miliardi di armi ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania. Un provvedimento necessario, come ha spiegato il segretario di Stato Mike Pompeo, per “scoraggiare l’aggressione iraniana” che tanto preoccupa Washington e i suoi alleati.
Una decisione, questa, che ha raccolto critiche tanto tra i democratici quanto tra i repubblicani, dato che si teme queste armi possano essere usate nella guerra in Yemen che ha già provocato decine di migliaia di vittime. Il senatore dem Robert Menendez, che in passato aveva usato i suoi poteri per bloccare le spedizioni di decine di migliaia di bombe a sauditi e emiratini, ha detto: “Sono deluso, ma non sorpreso, dal fatto che l’amministrazione Trump abbia fallito ancora una volta nel dare priorità ai nostri interessi a lungo termine per quanto riguarda la sicurezza nazionale e la difesa dei diritti umani. Ancora una volta, sta aiutando un Paese autoritario come l’Arabia Saudita”. Dello stesso avviso è anche il repubblicano Michael McCaul, che ha parlato di una scelta “scellerata” che rischia di compromettere i rapporti con il Congresso.
Un alleato scomodo
Durante la campagna elettorale, Trump ha usato parole di fuoco contro i sauditi, accusandoli perfino di aver organizzato l’attentato contro le Torri Gemelle. In un’intervista al New York Times, il tycoon si è spinto oltre, affermando che senza la protezione degli Stati Uniti “l’Arabia Saudita non esisterebbe”. Tutto vero, sia chiaro: gran parte degli attentatori dell’11 settembre era di nazionalità saudita (basti pensare allo stesso Osama bin Laden). Ma non solo: un importante documento di 28 pagine – intitolato Part IV: Finding, Discussion and Narrative Regarding Certain Sensitive National Security Matters e desecretato solamente qualche anno fa grazie all’impegno del Congresso – spiega come alcuni terroristi che colpirono il cuore dell’America “erano in contatto e hanno ricevuto appoggio e assistenza da individui che possono essere collegati al governo saudita”. Questo prima di arrivare alla Casa Bianca.
Diventato presidente, però, Trump ha dovuto fare i conti con una realtà molto complessa e difficile da cambiare. Basti pensare che il suo primo viaggio in qualità di presidente è stato proprio nella tanto vituperata Arabia Saudita, dove ha siglato un accordo di vendita di armi pari a 110 milardi in dieci anni. Ma perché Trump non riesce a liberarsi da questa morsa, soprattutto dopo il drammatico assassinio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi?
Per un semplice fatto: i sauditi – fin dal 1943 – sono il migliore alleato degli Stati Uniti (insieme a Israele) in Medio Oriente. Tutto inizia con Franklin Delano Roosevelt capisce che l’America ha bisogno di un partner affidabile in questa parte di mondo, capace non solo di mantenere la stabilità, ma anche di fornire le quantità di petrolio di cui Washington ha bisogno. In cambio gli Usa forniranno armi e sicurezza. Tutto fila liscio per trent’anni, fino a quando – dopo la guerra dello Yom Kippur – Riad decide di chiudere i rubinetti e di non vendere più petrolio ai Paesi occidentali, accusati di aver sostenuto Israele nel conflitto contro gli Stati arabi.
Ed è proprio sulla sicurezza che si gioca la grande amicizia tra Stati Uniti e Arabia Saudita, soprattutto dopo l’11 settembre. Per questo Washington è disposto a inghiottire diversi bocconi amari.
Da un lato il governo saudita è un partner molto stretto degli Stati Uniti sull’antiterrorismo. Dall’altra parte, il sostegno saudita verso una schiera di predicatori e organizzazioni non governative contribuisce a un generale clima di radicalizzazione, rendendo più difficile contrastare l’estremismo violento
(Daniel Byman)
Ora i due Paesi sono uniti anche dall’avversione all’Iran. Il regime degli ayatollah è fortemente osteggiato dai sauditi per ovvi motivi religiosi – i primi sono sciiti mentre i secondi sunniti – e da Washington, che vede in Teheran una minaccia per l’esistenza stessa di Israele. Per questo, negli ultimi anni – dall’uscita di scena di Barack Obama in poi – i due Paesi si sono avvicinati sempre di più. E questo non è un buon segno.