Era il 12 giugno 1987 quando l’allora presidente degli Stati Uniti d’America Ronald Reagan, al cospetto della porta di Brandeburgo a Berlino, pronunciò la mitica frase “Mr Gorbacev, tear down this wall!”. Il 1984 aveva visto l’inizio di un ripensamento da parte dell’amministrazione americana. Cambiamenti nelle persone, compresi l’addio di Richard Pipes, ma anche del direttore del Consiglio per la sicurezza nazionale William Clark, contribuirono ad aprire la strada a nuove iniziative. Un discorso del 1984 del presidente sulle somiglianze nelle qualità umane dei popoli degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, pur essendo un classico stratagemma elettorale, segnò un cambio di passo dal Rambo style verso una nuova fase fatta di negoziati. L’anno seguente fu dominato dall’avvento di Mikhail Gorbačëv alla leadership dell’URSS, nel mese di marzo. In Europa, nel frattempo, si apriva la grande stagione degli attentati di matrice libica.
Glasnost e Perstroika
Il libretto ampiamente letto di Gorbačëv, Perestroika, pubblicato nel 1988, pur richiamandosi al leninismo delle origini, fu una ventata di aria fresca fermamente antistalinista e critica nei confronti della stagnazione brezneviana. Le trasformazioni pensate da Gorbačëv, tuttavia, non trovarono il contrappeso di mutamenti all’interno del sistema politico: il cambiamento sociale superò in velocità la capacità di adattamento della struttura statuale. Le nuove forze presenti nella società sovietica si scontrarono con la resistenza di vecchi valori e strutture politiche antidiluviane. Il sistema sovietico fu in grado di mascherare le proprie debolezze grazie all’abbondanza delle sue risorse. Il reddito in valuta pesante legato alle esportazioni di petrolio copriva i deficit produttivi, annullando gli incentivi a impegnarsi in riforme sostanziali. Se si aggiunge a tutto questo il declino della qualità dei servizi pubblici e della moralità generale, si ha il quadro di una “superpotenza incompleta”, come la definì Paul Dibb nel suo omonimo libro uscito nel 1988.
Se in passato una certa vulgata della fine della Guerra Fredda ha accusato Gorbačëv di essere il fautore del collasso del sistema più che del crollo di un regime, oggi la storia rivaluta la cautela e anche un certo attendismo con il quale procedette ad introdurre le riforme. La glasnost apparve non come un apripista per la denuncia complessiva della vita sovietica ma necessaria alla democratizzazione della società affinché potesse andare avanti. Da qui anche l’accusa che la trasparenza fosse meramente il diritto di criticare tutto ciò che rientrasse nell’ambito delle sole riforme di Gorbačëv. Il giudizio della storia, forse, avrebbe dovuto essere più clemente nell’immediato e anche dopo. Un uomo che rappresentava una novità, per età e per idee, all’interno della dirigenza sovietica, in un Paese impoverito e fiaccato da due guerre mondiali e cinquant’anni di Guerra Fredda, non avrebbe potuto dall’oggi al domani optare per la briglia sciolta: ne sarebbe conseguita una tragedia epocale. Alcuni gesti simbolici come la pubblicazione del Dottor Zivago nel 1987, la liberazione dall’esilio siberiano di Andrei Sacharov, la proiezione pubblica del film Pentimento furono tutti segni che il leader sovietico lanciò al mondo ma soprattutto al “suo” Politburo.
La conclusione logica della glasnost fu l’accettazione della legittimità dell’opposizione al partito comunista abrogando l’articolo 6 della Costituzione sovietica che ne garantiva il ruolo di guida. Fu difficile ignorare il paradosso di un Gorbačëv che spingeva a favore dell’elezione popolare dei deputati ma si rifiutava di sottomettersi al voto popolare. Una scelta incomprensibile alla luce della ragione democratica, ma che forse allora fu strumento di protezione delle riforme che dovevano proseguire lentamente. Una scelta che pagò a caro prezzo perdendo credibilità presso la sinistra, che iniziò a vedere Boris Yeltsin come un leader alternativo. Gorbačëv apparve sensibile solo a tratti alle aspirazioni all’autonomia delle repubbliche e di determinati gruppi etnici al loro interno: anche questo aspetto fu giudicato negativamente dall’Occidente. Che liberalizzatore è colui il quale non concede immediatamente l’indipendenza ai popoli che lo chiedono? Oggi sappiamo e riconosciamo che, forse, quel processo avrebbe dovuto essere meglio digerito e meno tumultuoso. Pur riconoscendo il sacrosanto principio di autodeterminazione dei popoli.
Il colpo di Stato e il crollo dell’URSS
Questi fatti costituiscono lo sfondo del colpo di Stato dell’agosto 1991. Il 20 agosto di quell’anno, dopo il fallimento del golpe, un giovane Vladimir Putin lasciava il KGB.
Un solo uomo fu decisamente incapace di convincere della sua identità di genuino riformatore, né in patria e forse neanche all’estero, ove riscontrò le simpatie dei liberali ma meno quelle dell’élite radical chic, le stesse che si fecero affascinare da un uomo come l’ayatollah Khomeini. Tantomeno riuscì a convincere i conservatori in casa. Il resto è storia: un sistema di prezzi impazzito, crescente scarsità dei beni, inflazione dilagante, malcontento, profughi. La terapia shock per l’URSS non funzionò, tantomeno per la Russia, perché il cambiamento repentino raramente nella storia è destinato a durare.
Alla vigilia della campagna elettorale presidenziale del 1992, George Kennan pubblicò sul New York Times un articolo intitolato Il GOP ha vinto la Guerra Fredda? Ridicolo. Per l’uomo del Long telegram, la Guerra Fredda era stata una lunga e dispendiosa rivalità politica basata da entrambi i lati su valutazioni irrealistiche della controparte e distorsioni percettive. La Cold War di Walter Lippmann fu percepita come una vera guerra, pertanto, presumibilmente, una delle due superpotenze se ne sarebbe chiamata comunque vincitrice. Gli Stati Uniti ne avevano ben donde in fatto di potere, ricchezza e prestigio internazionale.
Cosa andò storto?
Nelle ore in cui qualcuno tenta di non prendere posizione nei confronti dell’aggressione russa all’Ucraina attraverso se e ma, occorre però con onesta e giusta distanza storica ripercorrere quella fase di trent’anni fa, per concentrarsi su cosa è andato storto in Russia e nei confronti della Russia. Percepire il crollo dell’URSS, al di là del suo valore democratico, come il modo per dare a quel sistema traballante il colpo di grazia non fu saggio. Tant’è che quell’universo non ha generato una nazione aperta e democratica, ha lasciato dietro di sé un florilegio di democrature, alcune delle quali arrancano dietro il processo europeo e non ha tantomeno creato un humus di sicurezza per l’Occidente .
Alla fine degli anni Ottanta non si è voluto o potuto rispondere alle richieste di aiuto di Gorbačëv, che chiese a gran voce una mediazione che accompagnasse (in maniera graduale) il passaggio delicato di Mosca verso la liberalizzazione. Gli demmo un premio Nobel e si preferì vincere il punto partita invece di sostenerlo. Una grande ingenuità mista a scarsa lungimiranza. Ci sarebbe voluta una Pace di Westfalia, più accorta, più cadenzata e capillare. La fretta colpevole con la quale è stata creata la Russia contemporanea resta la ragione madre che ne ha conservato la tendenza illiberale (che uccide e avvelena il dissenso, nel senso letterale del termine), l’isolamento, la povertà, nonché permesso l’escalation degli ultimi giorni.