L’Arabia Saudita rappresenta uno storico alleato degli Stati Uniti in Medio oriente. Il petrolio è senza dubbio l’arma politica principale con la quale Riad ha potuto iniziare a giocare, già dalla seconda metà del secolo scorso, un ruolo importante e con cui è stato possibile allacciare forti rapporti con Washington. Dal 2015 il Paese si trova impegnato in una fase interna piuttosto delicata. In quell’anno è venuto a mancare Re Abdallah, al suo posto è salito al trono il fratello Salman. Con il nuovo sovrano, a Riad si è avviata una svolta generazionale in seno alla famiglia reale che comanda il Paese dalla sua nascita. Re Salman infatti è destinato a essere l’ultimo figlio del fondatore del regno a occupare il trono.

L’erede designato è il principe Mohammad Bin Salman, figlio dell’attuale sovrano, il quale ha già di fatto preso le redini del Paese. C’è lui dietro le ultime strategie designate da Riad sia a livello interno che in politica estera. Il suo obiettivo sembra essere quello di avviare importanti riforme in un regno dove vige l’assoluto controllo della famiglia Saud e dove è in vigore la rigida interpretazione wahabita dell’Islam sunnita. Contestualmente, in politica estera Bin Salman vorrebbe trasformare Riad in una potenza regionale, in grado di avere un ruolo guida nella penisola arabica e nel medio oriente

Da dove tutto è iniziato: il programma “Vision 2030”

A circa un anno dalla nomina a principe ereditario, Mohammad Bin Salman, conosciuto internazionalmente anche con l’acronimo Mbs, ha presentato il progetto “Vision 2030“. Si tratta di un programma con il quale il futuro sovrano ha avviato una serie di iniziative economiche e politiche volte a differenziare l’economia, rendendola quindi meno dipendente dalle esportazioni di petrolio, e a modificare l’immagine del Paese. Sono stati finanziati programmi relativi allo sviluppo di nuove fonti energetiche, dell’agricoltura, dei servizi legati alla tecnologia e del turismo. Su quest’ultimo fronte l’Arabia Saudita, seppur con ritardo rispetto ai Paesi vicini, ha iniziato ad ospitare importanti eventi sportivi, a costruire resort e nuovi poli turistici sul Mar Rosso.

Mbs ha puntato anche sull’introduzione di alcune riforme in campo sociale, come quella relativa alla possibilità per le donne di ottenere la patente. Il programma negli anni ha mostrato luci e ombre. Alcuni osservatori lo hanno ritenuto e lo ritengono ancora oggi un ambizioso progetto di riforma del regno, altri invece lo considerano come una mera cartina tornasole volta a mascherare l’oscurantismo del regime wahabita, la persecuzione degli sciiti nella regione del Qatif, il caso relativo all’uccisione del giornalista Jamal Kashoggi e gli insuccessi nella guerra in Yemen.

Ad ogni modo, appare impossibile scindere il programma Vision 2030 dall’agenda estera del Paese. In particolare, Riad vuole presentarsi come una potenza in ascesa a livello politico ed economico nella regione, nonché come partner affidabile per gli alleati.

Il confronto con Teheran

Ma il primato regionale passa soprattutto dal confronto con il rivale storico dei Saud, ossia l’Iran. I due Paesi si contendono il primato di potenza regionale in medio oriente e sono politicamente divisi da molteplici fattori. Il primo riguarda l’ambito prettamente religioso: Riad è una monarchia assoluta sunnita wahabita, Teheran invece è una repubblica islamica teocratica sciita. Dunque mentre i sauditi aspirano a guidare il mondo sunnita, l’Iran ambisce alla creazione della cosiddetta “mezzaluna sciita“. Un progetto quest’ultimo teorizzato in primis dal generale Qassem Soleimani, ucciso da un raid Usa a Baghdad il 3 gennaio 2020 e con il quale il governo iraniano coltiva l’ambizione di creare un corridoio sciita da Teheran fino a Beirut. Un progetto inevitabilmente destinato a cozzare con i piani dei Saud.

La guerra nello Yemen

Si inquadra anche nel contesto del confronto Iran – Arabia Saudita il conflitto esploso nel 2015 nello Yemen. Quest’ultimo è un Paese confinante con il territorio saudita, considerato spesso da Riad come sotto la propria influenza. Tuttavia dopo le rivolte della primavera araba del 2011, si è registrata l’avanzata del gruppo sciita degli Houti. Con il sostegno dell’Iran, le milizie sono riuscite a prendere la capitale Sana’a nel 2014. Per questo l’anno successivo i Saud hanno deciso di intervenire, formando una coalizione di Paesi sunniti composta, tra gli altri, dagli Emirati Arabi Uniti, dal Bahrein e dall’Egitto.

I piani di Riad però non si sono avverati. Né sotto il profilo della sconfitta degli Houti, i quali ancora oggi nonostante un forte divario tecnologico con la coalizione a guida saudita controllano Sana’a, né nell’ambito della consacrazione dell’Arabia Saudita quale Paese guida della penisola arabica. Nel corso degli anni successivi infatti la coalizione si è sfaldata. Più di recente anche gli alleati emiratini si sono ritirati e nello Yemen sostengono forze differenti da quelle del governo ufficiale e, in particolare, quelle ricadenti all’interno delle milizie separatiste del sud.

La guerra nello Yemen ha quindi rappresentato, alla lunga, una disfatta per i sauditi. Il conflitto, tra le altre cose, ha provocato migliaia di vittime civili e una crisi umanitaria senza precedenti legata anche al blocco navale imposto attorno al Paese e al mancato arrivo per diversi anni di medicine e generi di prima necessità. La guerra inoltre non ha mancato di incidere negativamente sull’immagine internazionale di Mbs e della famiglia Saud.

I rapporti con Israele

Una carta importante nella politica estera Riad la può spendere nel miglioramento dei rapporti con l’altro grande alleato degli Usa nella regione, ossia Israele. I due Paesi continuano a non avere ufficiali rapporti diplomatici e i Saud non fanno parte del gruppo di governi arabi che riconoscono lo Stato ebraico. Tuttavia negli ultimi anni, sotto la mediazione soprattutto di Washington, tra le parti si è avuto un importante avvicinamento “ufficioso”. Un’accelerazione in tal senso si è avuta con l’amministrazione di Donald Trump. L’ex presidente Usa ha compiuto nel maggio 2017 il suo primo viaggio da inquilino della Casa Bianca proprio in Arabia Saudita, intensificando i rapporti con Riad grazie anche alle importanti commesse di armi firmate con Mbs. Da allora Trump ha promosso, nell’ottica della creazione di una vasta coalizione anti Iran, un avvicinamento tra i Paesi arabi del golfo e Israele.

Uno sforzo in parte premiato dagli accordi di Abramo, siglati nell’estate del 2020 e che hanno portato Emirati Arabi Uniti e Bahrein a riconoscere Israele. Un duo a cui poche settimane dopo si è unito il Marocco. L’Arabia Saudita non ha aderito all’accordo, ma lo ha comunque “benedetto” nel dietro le quinte dei corridoi diplomatici. Non sono pochi, negli Usa come in Israele, a ritenere alta la possibilità di giungere a un vero accordo tra i sauditi e lo Stato ebraico. Per Riad i rapporti con gli israeliani appaiono cruciali. Non solo in funzione di contenimento dell’Iran ma anche, più in generale, per il sostegno alle ambizioni di diventare una potenza regionale.

L’inquadramento geopolitico di Riad

I primi tentativi di rendere l’Arabia Saudita la vera traghettatrice della penisola arabica non sono andati a buon fine. Non solo la guerra nello Yemen e lo strascico di morti e sconfitte politico-militari da essa arrivate, Riad ha dovuto fare i conti anche con il fallimento dell’embargo proclamato contro il Qatar nel 2017. Doha, sostenitrice dei Fratelli Musulmani (nemici dei Saud) e fautrice di un’agenda estera autonoma, nelle intensioni di Mbs doveva essere richiamata all’ordine grazie a un forte embargo commerciale e alla minaccia di un intervento militare. Ma il piccolo emirato è riuscito ad evitare l’isolamento e negli ultimi due anni si è assistito a un riavvicinamento tra le parti.

Ad ogni modo, il sentiero dei Saud appare tracciato. L’Arabia Saudita, alle prese con difficili riforme interne, vuole da un lato mantenere il ruolo di alleato degli Usa ma, al contempo, avere una politica sempre più autonoma vocata all’ambizione della leadership regionale. Un’autonomia da Washington di recente ancora più marcata per via dei rapporti non sempre semplici con l’amministrazione guidata da Joe Biden. A dimostrarlo è la posizione sostanzialmente neutrale di Riad nella guerra in Ucraina, con i Saud che non hanno applicato sanzioni o restrizioni nei confronti della Russia. Anzi, con Mosca l’intesa negli ultimi anni è cresciuta soprattutto in relazione al mercato del petrolio, essendo i due Paesi i maggiori produttori di greggio. Proprio sull’oro nero si è consumato un altro importante strappo con la Casa Bianca subito dopo l’inizio delle ostilità a Kiev: Riad ha negato l’aumento di produzione del petrolio chiesto da Washington per mitigare la corsa al rialzo delle materie prime a seguito della guerra.





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