Il 4 dicembre doveva essere il giorno che avrebbe dovuto dare il via a una Germania post Merkel. Ma la seconda ondata del virus ha rimandato tutto al 2021. Per quella data era fissato il congresso della Cdu che doveva scegliere il nome del futuro segretario. L’Unione cristiano democratica ha però deciso di rinviare la scelta alla primavera del prossimo anno, comunque in tempo per le elezioni legislative fissate per l’autunno del 2021.
Questo stop rimanda solo di qualche mese una sfida accesissima per il futuro della Germania e del partito. I temi sul tavolo sono moltissimi, dalla possibile fine della Große Koalition coi socialisti a futuri patti con i Verdi. C’è però un tema di cui si è parlato meno, ma che con ogni probabilità sarà sempre più forte: quello delle relazioni con la Cina.
La pandemia ha smosso situazioni che sembravano cristallizzate, ha cambiato la percezione della Cina di milioni di tedeschi e messo in discussione un modello industriale legato a doppio filo con la Repubblica popolare.
La bilancia commerciale tedesca
Attualmente l’economia della Germania deve molto alla Cina. Solo nel 2019 Berlino ha esportato verso Pechino beni per un valore vicino ai 100 miliardi di euro, in pratica circa la metà di tutte le esportazioni dell’Ue nel Paese. Non solo. L’economia tedesca ha assorbito anche di più di quanto esportato, di fatto rendendo la Cina il suo primo partner commerciale.
Va detto che il primo mercato di esportazione dei beni Made in Germany restano gli Stati uniti, ma il mercato della Repubblica popolare è quello che in prospettiva cresce di più, scrive Politico. Persino durante la pandemia la Cina si è confermata uno dei pilastri dell’economia tedesca, con le esportazioni ripartite ai ritmi pre-covid già dopo la prima ondata. Il tutto mentre i beni diretti negli Usa hanno subito una flessione.
Questi intesi legami economici, cercati e rinforzati da Helmut Kohl negli anni 80, hanno mostrato una Germania sempre più dipendente dalla Cina e per questo sempre più incline a non vedere i lati oscuri del regime cinese. Anzi, negli anni Berlino ha sviluppato una dialettica quasi bizzarra con la Cina. Da un lato Berlino invitava personaggi scomodi agli occhi della Cina, come il Dalai Lama. Allo stesso tempo Pechino si diceva infuriata dell’intromissione tedesca negli affari cinesi, ma alla fine i legami industriali crescevano.
Emblematico in questo senso l’investimento della Volkswagen a Urumqi, la capitale regionale dello Xinjiang, dove milioni di uiguri sono posti sotto stretta sorveglianza e addirittura incarcerati in campi di internamento. Da quando è diventata cancelliera nel 2005, Merkel ha compiuto oltre 12 viaggi in Cina. L’ultimo nel settembre di un anno fa, quando è sbarcata a Pechino con una grossa delegazione di imprenditori negli stessi giorni in cui per le strade di Hong Kong gli attivisti pro-democrazia venivano repressi dalla polizia.
In quella sede Merkel presenziò anche insieme al premier cinese Li Keqinag alla firme di 13 accordi commerciali tra dirigenti cinesi e tedeschi nella Sala grande del popolo nei pressi di piazza Tienanmen.
Il caso del dossier insabbiato
In molti casi questo profondo intreccio tra relazioni diplomatiche, politica e industria è arrivato a influenzare i rapporti tra governo e intelligence. A inizio ottobre il sito americano Axios ha svelato l’insabbiamento di uno scottante dossier a carico di Pechino.
Secondo fonti dei servizi americani, nel 2018 un alto funzionario del governo di Berlino avrebbe messo a tacere un rapporto dell’intelligence sulla crescente influenza della Cina in Germania, nel timore che la sua diffusione potesse danneggiare i rapporti commerciali tra i due Paesi. In quel documento si mettevano in luce i tentativi dei funzionari cinesi di influenzare ogni livello della vita tedesca, dal governo, alla società, passando per il mondo industriale.
Sempre secondo le fonti sentite da Axios il dossier non è arrivato sulle scrivanie di tutti i ministri del governo, ma è stato bloccato prima. Ma si sa anche che la cancelliera Merkel, e pochi altri fedelissimi, hanno avuto modo di visionarlo.
Questo rapporto tra i due Paesi è stato plasmato in modo molto forte dalla stessa cancelliera e dalla potente imprenditoria tedesca. Ma oggi il modello sembra essere entrato profondamente in crisi. Chi raccoglierà la sua eredità alla guida della Cdu e del Paese si troverà ad affrontarli.
Ora i tedeschi temono Pechino
Per molti anni la società tedesca ha quasi ignorato l’esistenza della Cina. Ha lasciato che i legami venissero gestiti da governo e dal mondo economico, questo anche perché molti consideravano la Cina un mondo lontano e culturalmente diverso da quello tedesco. Poi si sono susseguiti due fatti che hanno cambiato le regole del gioco.
Il primo è iniziato ufficialmente nel 2017 a margine del 19° congresso del Partito comunista cinese. In quell’occasione Xi Jinping annunciò un rafforzamento della presenza del governo nella vita economica delle imprese. E da allora, ha scritto Politico, molte aziende sono state costrette a dare al Pcc un ruolo più attivo nei processi decisionali. Una presa poi consolidata con successive norme e disposizioni, come la legge sulla cybersicurezza che ha fatto scattare il campanello d’allarme su possibili furti di segreti commerciali.
Il secondo evento è stata ovviamente la pandemia. Dopo la diffusione del coronavirus una serie di violazioni che eran sotto gli occhi di tutti, come la repressione a Hong Kong, gli abusi sulla minoranza uigura e i rischi per la sicurezza del 5G, sono diventate insostenibili. Secondo una recente rilevazione del Pew research center quest’anno la percentuale di tedeschi che hanno una visione negativa della Cina ha toccato il 71%, con un balzo di 15 punti dal 2019.
A gettare altra benzina sul fuoco ci ha pensato un il rapporto annuale sulla protezione costituzionale redatto dai servizi segreti del Paese. Tra le varie cose nel dossier si legge di un «aumento significativo dello spionaggio cinese» e di come Pechino utilizzi alcune piattaforme di pagamento, app di mobilità e servizi di bike sharing per raccogliere dati dei cittadini tedeschi. Un tema molto sensibile in Germania in virtù delle vaste raccolte di dati compiute dalla Stasi negli anni della Guerra Fredda.
L’ascesa del falco anti-cinese Röttgen
Tutti questi nodi verrano quindi al pettine nel prossimo congresso Cdu e nel voto del 2021. Sul primo fronte la battaglia tra i candidati per perdere il posto dell’ex erede di Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer è più forte che mai. Esiste infatti la possibilità che il posto di Merkel venga preso dal falco anti-cinese Norbert Röttgen, ex ministro dell’Ambiente e oggi capo della commissione parlamentare per gli Affari esteri.
Formalmente Röttgen è l’outsider della corsa e insegue Friedrich Merz, uno dei preferiti dei conservatori sociali, avanti con un buon margine. Terzo della partita è invece Armin Laschet. Merz, campione dell’area più conservatrice, è un miliardario con un passato da manager per importanti realtà come Axa, BlackRock e Basf (azienda chimica che ha promesso un investimento mostre in Cina dal valore di 10 miliardi di dollari).
Röttgen invece ha un profilo che piace di più all’ala moderata della colazione, ma soprattutto ha posizioni fortemente critiche nei confronti dei legami con la Cina. C’è infatti il suo zampino dietro la nuova legge sulla sicurezza informatica che verrà varata verso fine anno e che con ogni probabilità escluderà il colosso asiatico Huawei alla corsa al 5G tedesco.
Le frecce a disposizione di Röttgen per sfondare sono almeno due. La prima è che in caso di successo al congresso non si candiderebbe alla cancelleria come Merz e Laschet, ma andrebbe a formare un tandem con Markus Söder, capo della costola bavarese della CDU. La mossa avrebbe uno scopo squisitamente politico perché Söder piace molto alla base del patito.
La coppia potrebbe poi puntare al voto e a mandare in soffitta la coalizione coi socialisti. Non tanto per puntare a governare da sola, quanto per costruire una nuova e strana alleanza coi Verdi. Su questo fronte Röttgen giocherebbe un ruolo fondamentale. Durante il suo mandato è stato uno dei fautori della strategia verde del governo Merkel che puntava a ridurre la dipendenza dal nucleare in favore di energie alternative.
Ma il vero punto di incontro tra l’ex ministro e i Verdi sarebbe proprio lo spirito anticinese. Negli anni infatti il partito, oltre a migliorare i consensi, ha battuto molto il tasto dei diritti umani, trovando una sponda in Röttgen. Non a caso negli ultimi mesi il politico ha espresso l’intenzione di rinforzare i legami con Taiwan. Un segno evidente della volontà di cavalcare la voglia di cambiamento dei tedeschi.
Chiaramente il nodo economico-industriale resta. Ma che sia necessaria una svolta è chiaro anche agli occhi di Angela Merkel. La Germania ha infatti cercato di spingere il suo mandato alla guida del Consiglio dell’Unione europea per portare a termine il lungo negoziato con la Cina sugli investimenti, ma senza successo. Allo stesso tempo, a settembre, ha varato una propria strategia per l’Indo-Pacifico. Timidi segnali. Forse il preludio di un 2021 molto caldo sull’asse Berlino-Pechino.