Lo spettro di una riedizione di Euromaidan in salsa bielorussa è stato allontanato, e sia Vladimir Putin che Aleksandr Lukashenko possono tirare un sospiro di sollievo: la Bielorussia è salva e continuerà ad essere parte integrante del millenario mondo russo (Russkij Mir). È vero: i dimostranti non hanno mai abbandonato del tutto le piazze – e a Minsk si continua a protestare nel silenzio mediatico – ma il malcontento è stato contenuto e la soglia di rischio è stata abbassata grazie ad una combinazione di fattori, ovvero la solidità del sistema di repressione e sicurezza, l’arrivo dell’inverno, la fuga all’estero dei capi-opposizione, in primis Svetlana Tikhanovskaya, e la neutralizzazione delle principali anime dei moti, come l’arcivescovo Tadeusz Kondrusiewicz.
Il sistema Lukashenko ha retto all’onda d’urto, almeno per ora, ma ciò non sarebbe stato possibile senza il supporto tanto intangibile quanto presente del Cremlino. La Bielorussia non è l’Ucraina, questo è il motivo per cui il tentato Euromaidan non ha funzionato e per cui la stessa opposizione, con in testa la Tikhanovskaya, ha provato (senza successo) ad aprire un canale di dialogo con Putin, offrendo garanzie in cambio del semaforo verde al cambio di regime.
Il corteggiamento non è andato a buon fine: l’immagine della Tikhanovskaya è stata compromessa irrimediabilmente nel momento in cui è fuggita a Vilnius, da dove ha poi cominciato un tour dell’Unione Europea, e il Cremlino ha preferito mantenere in vita il debole, inaffidabile ma ancora utile Lukashenko. Il danno, però, è fatto ed è irreparabile: non saranno i dietrofront del cosiddetto ultimo dittatore d’Europa su E40, Iniziativa dei Tre Mari e diversificazione energetica – senza dimenticare l’arresto eclatante dei soldati del Gruppo Wagner – a convincere Putin della bontà dell'(ex) alleato, rivelatosi un doppiogiochista inesperto, il cui futuro è segnato.
Nuova costituzione, nuovo presidente?
È dalla seconda metà di agosto che Lukashenko propone di modificare la costituzione per venire incontro alle esigenze di modernizzazione e democratizzazione richieste da una società radicalmente mutata nell’ultimo ventennio. Quelli che, almeno inizialmente, potevano essere interpretati come i tentativi del presidente di placare gli animi dei dimostranti, con lo scorrere del tempo hanno assunto la forma di vere e proprie promesse.
L’evento spartiacque è stato indubbiamente il vertice di Sochi dello scorso 27 settembre. Quel giorno, Lukashenko ha ottenuto un maxi-prestito di un miliardo e cinquecento milioni di dollari e Putin ha ipotecato il controllo del processo di transizione di potere, come dimostra il fatto che, a partire da allora, siano aumentate di frequenza e consistenza le dichiarazioni del presidente bielorusso riguardanti la volontà di riformare la costituzione. Dichiarazioni alle quali, però, non hanno fatto seguito passi concreti e che, perciò, hanno spinto il Cremlino ad aumentare le pressioni su Minsk.
Il 26 novembre, a due mesi di distanza dalla bilaterale di Sochi, Sergey Lavrov atterrava nella capitale bielorussa per ricordare a Lukashenko l’inestinguibilità del patto siglato con Putin in cambio della salvezza dell’ordine lukashenkiano. Era stato lo stesso Lavrov, raggiunto dalla stampa, a parlare dell’importanza di avviare un processo di riforma costituzionale per stabilizzare la situazione.
Il momento della svolta, attesa tanto dal Cremlino quanto dai bielorussi, potrebbe giungere a breve. Lukashenko, secondo quanto riferito recentemente dall’agenzia di stampa RIA Novosti, vorrebbe concludere il processo di scrittura della nuova costituzione entro la fine del 2021 per poi sottoporla al volere popolare. La data del referendum potrebbe essere annunciata il prossimo mese, durante la due-giorni di lavori del Congresso del Popolo (11-12 febbraio).
Il futuro di Lukashenko
Il motivo alla base della volubilità di Lukashenko – a tratti aperto a lasciare la presidenza in base all’esito referendario, altre volte apparentemente ferreo nella sua volontà di cedere l’incarico soltanto a mezzo nuove elezioni – è che non è lui a decidere per se stesso, è il Cremlino. Il riavvicinamento opportunistico alla Russia non ha cancellato una stagione di doppiogiochismo durata esattamente un anno, iniziata con l’arrivo di John Bolton a Minsk nell’agosto 2019 e terminata nell’agosto 2020 unicamente a causa dei tumulti post-elettorali, e che a Lukashenko costerà sia l’uscita di scena che il naufragio del sogno di dar vita ad una dinastia.
La promulgazione di una nuova costituzione è propedeutica ad un ritorno alle urne, magari guidato da un governo di transizione, che, nelle aspettative del Cremlino, potrebbe e dovrebbe sancire la vittoria di una forza partitica in grado di offrire garanzie in termini di stabilità del mondo russo e prevedibilità in politica estera. La Tikhanovskaya difficilmente potrebbe essere la figura ricercata da Mosca – anche perché nei canali Telegram a essa legati, in primis il popolare Nexta, sta venendo data visibilità al personaggio più inviso al Cremlino, Aleksei Navalny – ragion per cui non sono da escludere la formazione di un nuovo partito o l’entrata di politici filorussi (e carismatici) nella partita per la successione.
Per Mosca è fondamentale l’eliminazione politica di Lukashenko, in quanto contribuirà a risolvere una parte significativa dei problemi relativi al dossier Bielorussia, ed ugualmente vitale è che il processo di transizione di potere venga teleguidato, perché l’amministrazione Biden sarà presente e pronta a cogliere l’opportunità.