Nell’intricato groviglio mediorientale sono numerosi i vuoti di potere creatisi dall’azione combinata di primavere arabe (prima), transizione americana, down petrolifero e minaccia iraniana. Tuttavia, i destini dei Paesi del Golfo sembrano essere sempre più segnati dal carisma del principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed.
Un leader lungimirante
Quando Mohamed bin Zayed ha assunto il suo ruolo all’inizio degli anni 2000, si è trovato davanti una serie di sfide amministrative, economiche e di sicurezza. In quanto leader in ascesa, il principe ereditario (aka Mbz) si è lanciato nel consolidamento della sicurezza interna e della leadership di Abu Dhabi, fronteggiando sia la minaccia islamista che l’ascesa della golden Dubai.
Carismatico, ascoltato, re del soft power e à la page, è da tempo uno degli interlocutori prediletti di Washington (compreso l’uscente presidente Trump), tanto da offuscare il più giovane e discutibile omologo saudita Mohammed bin Salman. Quello che più convince del leader di Abu Dhabi è senza dubbio la sua lungimiranza. Proprio l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ne parla nel suo nuovo libro di memorie, A Promised Land: l’ex presidente ricorda che proprio bin Zayed, ai tempi dei fatti di Piazza Tahrir, gli annunciò che se l’Egitto fosse crollato e la Fratellanza Musulmana avesse preso il sopravvento, sarebbero caduti anche altri otto leader arabi. Nella medesima conversazione, inoltre, il leader emiratino lamentava il fatto di non poter più fare affidamento sulla partnership con gli Stati Uniti. Presumibilmente, una richiesta di aiuto più che un avvertimento.
La lotta all’Islam politico
Dopo la Guerra del Golfo, uno dei segni distintivi della politica emiratina è stato il rifiuto totale dell’Islam politico. Un elemento che si è poi trasformato in una vera bandiera per bin Zayed da agitare verso le diplomazie occidentali, soprattutto dopo l’11 settembre 2001: questo accento è stato posto anche in virtù del fatto che a bordo di uno dei velivoli dirottati vi erano proprio due cittadini emiratini. Da lì, il passo verso la rottura con i Talebani e l’appoggio alle manovre della NATO fu breve.
Da quel momento vi è stata una sterzata decisa: negli ultimi anni sono state numerose le riforme politiche, sociali ed educative che hanno portato a un controllo più stretto su ciò che viene predicato nelle moschee, passando per il divieto di alcun tipo di propaganda politica nei luoghi di culto e perfino per il controllo maniacale dei sermoni. Bin Zayed in persona si è fatto promotore della campagna contro il movimento Al Islah, accolito dei Fratelli Musulmani in loco con grande seguito tra i giovani e i cui esponenti principali avevano ruoli chiave nella politica locale: una vera e propria epurazione in grande stile è avvenuta dal 2011 in poi a colpi di processi e cittadinanze revocate.
Una fitta rete di iniziative diplomatiche
Il passaggio dall’amministrazione Trump a quella Biden, ormai questione di giorni, implicherà un nuovo ruolo per Abu Dhabi. La rinegoziazione eventuale con l’Iran, infatti, dovrà necessariamente coinvolgere altri attori regionali e il successo di una simile operazione potrebbe dipendere anche da bin Zayed, che occupa una posizione di leadership sempre più prominente nel Golfo e la cui alleanza con i sauditi non è più salda come una volta; a ciò si aggiunge il fatto che gli Emirati sarebbero i primi a venir coinvolti nella linea di fuoco se si arrivasse ad un’escalation militare tra Stati Uniti ed Iran: una reiterata minaccia, soprattutto da parte di Teheran.
Bin Zayed è uno di quei leader che ha guardato con ansia e preoccupazione alle primavere arabe e ripetutamente schieratosi contro il calderone dell’Islam politico, almeno sulla carta. La sua linea alternativa si è espressa anche sulle vicende dello Yemen (arrivando allo scontro con i Sauditi) e della Liba (ha appoggiato il generale Haftar); l’avvicinamento con Israele, poi, è stato funzionale alla realizzazione della modernizzazione degli Emirati Arabi Uniti, alla guida della rigenerazione economica della regione. Isolato su questo tema fin dall’inizio, in un mondo arabo dove la causa palestinese è ancora considerata non negoiabile, bin Zayed ha saputo avviare un movimento diplomatico su cui nessuno avrebbe scommesso, sconvolgendo profondamente gli equilibri regionali.
La “piccola Sparta”
Abu Dhabi non è solo una delle tante petromonarchie, ma possiede il più grande fondo sovrano al mondo e il collegamento con Israele darà ai suoi investitori l’accesso a uno dei settori tecnologici più vivaci al mondo.
Il sovrano, inoltre, ha speso centinaia di miliardi di dollari in armi americane ed il suo è ora considerato come il più avanzato esercito del mondo arabo. La forza militare è diventata così uno strumento privilegiato nella politica estera degli Emirati. Pur rimanendo discreti, gli Emirati Arabi Uniti stanno iniziando ad evolversi in ciò che James Mattis, Segretario alla Difesa nell’amministrazione Trump, avrebbe poi soprannominato “piccola Sparta” nel 2014. Non solo, ma grazie alla sua audace diplomazia, Abu Dhabi è stata in grado di acquisire gli F35 americani che il sovrano sognava da tempo.
Un’immagine di rinnovata deterrenza e aggressività che è un messaggio poco subliminale all’Islam politico e allo spettro della Turchia, che ora vede come il suo principale avversario, rea di voler seminare il caos nel Mondo arabo. Ed è proprio per mettere i bastoni fra le ruote ad Erdogan che, nel novembre scorso, ha firmato un trattato di mutua difesa con la Grecia al di fuori della Nato, il suo primo accordo con una potenza europea, e ha inviato caccia F-16 in quel di Cipro.
L’uomo del Golfo?
In una lettera del 20 novembre 2020 al Comitato per il Nobel, l’ex primo ministro dell’Irlanda del Nord Lord David Trimble, egli stesso un premio Nobel per la pace, ha nominato il primo ministro Benjamin Netanyahu e il principe bin Zayed per il premio Nobel per la pace 2021. Lord Trimble ha spiegato che stava nominando Netanyahu e bin Zayed “in riconoscimento dei loro risultati storici nel promuovere la pace in Medio Oriente”.
Questa notizia di colore fa capire quanto il principe di Abu Dhabi sia ormai influente presso “quelli che contano”, pronti a riconoscerlo come un primus inter pares, e presso i suoi vicini, spesso pronti all’emulazione: il sovrano, ormai sessantenne, non è di certo un Sadat dei nostri tempi, tuttavia è un abile negoziatore che promuove l’interesse nazionale emiratino in questo nuovo scenario del Golfo dove le certezze sembrano sfumare. Questo suggerisce un’unica profezia sui prossimi anni: il futuro della regione passerà anche, e soprattutto, da Abu Dhabi.