La breve ma intensa epopea di Donald Trump alla Casa Bianca procede lentamente lungo il viale del tramonto, a meno di stravolgimenti (sempre più improbabili) dell’ultimo minuto, e Joe Biden sta preparandosi per sostituirlo. Le grandi eredità che Trump lascia al politico di lungo corso ed eminenza grigia del Partito Democratico, del quale condiziona l’agenda estera sin dall’era Clinton, sono principalmente tre: un neonato scontro egemonico con la Cina, un conflitto inoltrato con la Russia e un mondo musulmano in subbuglio per via degli accordi di Abramo e dell’incognita Erdogan.

Biden, in conformità con il proprio credo nell’internazionalismo liberale e con una formazione teorica e pratica avvenuta durante la Guerra fredda, porrà fine alla politica simil-isolazionista sui generis che ha connotato la presidenza Trump e tenterà di riportare gli Stati Uniti al centro del mondo, riesumando metodi e concetti cari alle scuole wilsoniane e jeffersoniane. Nel perseguire tale corso d’azione, aumenterà notevolmente il livello dello scontro con un rivale di lunga data degli Stati Uniti: la Russia.

Il mondo (e la Russia) si preparano all’era Biden

Il fenomeno Trump è ormai agli sgoccioli e coloro che ritengono di essere dei potenziali obiettivi nella lunga lista di rivali stilata da Biden si stanno preparando al temuto cambio di paradigma, al ritorno in scena dell’internazionalismo liberale aggressivo e assertivo. Dall’America Latina all’Asia, passando per il Vecchio Continente, Biden ha già anticipato che darà il via ad una battaglia culturale e politica a favore dell’esportazione dei valori liberali e democratici nel mondo che non farà sconti a nessuno, neanche a degli alleati stretti come Polonia e Turchia.

Non è una coincidenza e non dovrebbe sorprendere, quindi, che Andrzej Duda, Viktor Orban e Recep Tayyip Erdogan, abbiano tifato apertamente per il presidente uscente e ingaggiato degli scontri verbali a distanza con il candidato democratico durante le elezioni, salvo poi mutare repentinamente atteggiamento all’indomani della certificazione dell’esito elettorale. I rappresentanti di quel mondo contro il quale Biden combatte da una vita temono l’arrivo del 20 gennaio 2021, la data dell’insediamento ufficiale della nuova presidenza, e a questo proposito è fonte di un silenzio assordante l’assenza presente della Russia.

Il Cremlino, ritardando il riconoscimento dei risultati della corsa alla presidenza, non sta agendo nell’interesse di Trump né cerca di inimicarsi (ulteriormente) Joe Biden; l’obiettivo, molto più sottile, è di capitalizzare al massimo dal disordine post-elettorale che sta affliggendo gli Stati Uniti per enfatizzare le falle del sistema democratico e, in generale, le mancanze e le debolezze del modello occidentale. Non saranno delle congratulazioni tardive a determinare e/o condizionare il rapporto tra le due presidenze, anche perché in Russia vi è piena consapevolezza di chi Biden sia, cosa rappresenti e cosa intenda fare.

Biden, infatti, è prevedibile perché non è un volto nuovo: è un déjà-vu. Egli porrà fine alla simpatia di facciata con l’omologo russo e al clima di cordiale ostilità tra i due Paesi, riportando la tensione ai livelli del secondo mandato Obama. Questo avverrà perché Biden è in primis un democratico, ossia rappresentante di quel partito che per quattro anni ha accusato Mosca di aver manipolato le presidenziali del 2016, ed è in secundis un liberale internazionalista, scuola Jefferson, ovvero un politico ideologizzato che ha una visione manichea del mondo.

L’agenda Biden per la Russia

Per capire quale linea d’azione potrebbe seguire Biden, oltre alle premesse personali e ideologiche, è necessario ricostruire brevemente la storia dei suoi rapporti con la Russia e i suoi alleati: negli anni ’90 è stato uno dei fautori della svolta antiserba dell’amministrazione Clinton, durante l’era Obama ha lavorato intensamente per un cambio di regime in Siria, appoggiato Euromaidan e la successiva implementazione del regime sanzionatorio, e, inoltre, ha inaugurato la guerra dei gasdotti con l’annullamento del South Stream.

Biden è, alla luce del suo passato, della sua appartenenza partitica e del suo credo, in un certo senso prevedibile. Verrà essere mantenuto in essere il regime sanzionatorio, che è anche uno strumento utile a congelare a tempo indefinito un riavvicinamento tra Ue e Russia, ma non è da escludere a priori un suo annullamento verso metà mandato – sia perché rivelatosi controproducente, sia perché migliorerebbe il clima di collaborazione con l’asse franco-tedesco.

Al dossier sanzioni si lega la questione Nord Stream 2, che verrà risolta definitivamente sotto l’amministrazione Biden per semplici ragioni temporali. Potrebbero essere incrementate le pressioni su Berlino con la finalità di portare al congelamento definitivo del gasdotto, ma, se il nuovo presidente intende realmente ripristinare il dialogo tra le due sponde dell’Atlantico, è più probabile che ne venga avallata la fine dei lavori in cambio della promessa di maggiori acquisti di gas liquefatto statunitense.

Anche la preannunciata lotta all’internazionale populista, parte di un ampio disegno di promozione dei valori democratici nel mondo, avrà conseguenze per la Russia. Il Cremlino, infatti, negli anni recenti ha scommesso sull’euroscetticismo per esercitare delle pressioni dal basso su Bruxelles, funzionali a bilanciare la russofobia imperante a livello sovranazionale, trovando degli importanti interlocutori in forze politiche come Fidesz, Raggruppamento Nazionale e Lega. Questi partiti, però, alcuni dei quali si trovano attualmente al potere, vedranno grandemente limitati i loro margini di manovra in politica estera con l’arrivo di Biden.

L’ex vicepresidente di Obama, inoltre, non credendo nella spartizione del pianeta in sfere di influenza, è un sostenitore di lunga data dei percorsi di integrazione di Georgia e Ucraina nell’orbita occidentale, da intendere come inglobamento nell’Ue e nell’Alleanza Atlantica. È stato proprio negli anni del duo Obama-Biden, del resto, che è avvenuto lo strappo tra Kiev e Mosca. La presidenza democratica dedicherà, nel complesso, un’elevata attenzione a quei Paesi postsovietici che si trovano ai confini dell’Ue; non soltanto Georgia, Moldavia e Ucraina, i cui processi di integrazione riceveranno un forte impulso, ma anche la Bielorussia che Trump ha volutamente trascurato.

Sullo sfondo di un ulteriore spostamento a Oriente della cortina di ferro, Biden potrà anche incamminarsi nella strada spianatagli dal predecessore nell’Asia centrale postsovietica – facendo leva, forse, sulla Turchia – e, ultimo ma non meno importante, tenterà di sfruttare l’aumentata visibilità di Aleksei Navalny e l’autunno caldo russo per minare le fondamenta stesse dell’ordine putiniano.

Dialogo difficile, ma non impossibile

Una normalizzazione tra le due grandi potenze, per quanto irrealistica e difficile da concepire al momento, è comunque possibile. Innanzitutto, è di importanza fondamentale rammentare che il Partito Democratico non è un monolite: al suo interno convivono una serie di scuole di pensiero, anche molto differenti tra loro, che contribuiscono a rendere vivaci e pluralistici i dibattiti riguardanti lo sviluppo della politica nazionale e internazionale.

Inoltre, anche se da ormai sei anni Russia e Stati Uniti sono separate da un muro insonorizzato, quella barriera potrebbe essere abbattuta – almeno in parte – in presenza di interessi coincidenti su dossier di rilievo mondiale, come ad esempio la lotta al terrorismo, il multilateralismo, il cambiamento climatico e l’aggiornamento di trattati fondamentali come il New Start e l’Open Skies.

La presidenza Biden, ad esempio, avrà maggiori probabilità di giungere ad un compromesso con il Cremlino circa il rinnovo del New Start, trattandosi di un documento elaborato durante l’epoca Obama, ed è legata a Mosca da un altro punto: la comune volontà di partecipare all’elaborazione di un’agenda globale per il clima. Armamenti e clima, in breve, potrebbero fungere da sponda per l’espansione della collaborazione su altri temi, anche radicalmente diversi, a patto che ragionevolezza e interesse collettivo prevalgano sulla rivalità ideologica e sugli egoismi nazionali.

L’ombra di Andrew Jackson

Biden è uno di quei politici cresciuti con il mito dell’America quale nuova terra promessa e dei Padri fondatori quali fonti di eterna e sempreverde conoscenza e saggezza da cui attingere, apprendere e imparare a vedere, concepire e plasmare il mondo. Biden, nello specifico, è un seguace della tesi jeffersoniana dell’America quale Impero della Libertà (Empire of Liberty) ed è anche un degno erede di Andrew Jackson, colui che per primo fece leva sulla retorica russofobica per compattare il popolo americano.

Le elezioni del 2016, così come quelle di quest’anno, non sono state nient’altro che una trasposizione nel ventunesimo secolo delle presidenziali del 1828, le undicesime dell’allora giovanissima democrazia americana. Come Trump è stato accusato a più riprese dalla grande stampa liberale e dal Partito Democratico di essere un burattino di Vladimir Putin, il quale ne avrebbe favorito l’ascesa per mezzo di presunte interferenze elettorali nel 2016, in maniera molto simile fu denigrato John Quincy Adams.

L’immagine e la reputazione di Adams, presidente uscente e affiliato al Partito Repubblicano Nazionalista, furono danneggiate enormemente dal lancio di accuse infondate, da parte di grande stampa e politici jacksoniani, riguardanti la sua presunta collusione con l’impero russo e un rapporto alternante sottomissione e fascinazione che lo avrebbe legato allo zar Alessandro, per conto del quale avrebbe lavorato come lenone e che gli valse un soprannome estremamente dispregiativo: “il magnaccia dello zar”.

A sette anni di distanza da quell’appuntamento elettorale, terminato con la vittoria di Jackson, con l’ascesa al potere dei democratici e con disordini nelle strade, il pensatore senza tempo Alexis de Tocqueville diede alle stampe un’opera monumentale, “La democrazia in America“, preconizzando l’ineluttabilità di un destino che prima o poi avrebbe condotto Russia e Stati Uniti sul sentiero dello scontro per via delle loro dimensioni geografiche, delle loro ambizioni espansionistiche e, soprattutto, delle loro identità intrinsecamente antipodiche.

La storia ha dato ragione a Tocqueville, come dimostrano la guerra fredda, il contenimento infinito e la visione di Biden. La paura rossa continua ad essere un sentimento sul quale capitalizzare per spostare voti e mobilitare gli alleati, nel 2016 (e nel 2020) come nel 1828, e per i conoscitori della storia non vi è nulla di sorprendente né di innovativo negli accadimenti che stanno avendo luogo negli Stati Uniti; è un semplice déjà-vu.