Il controllo dell’informazione è fondamentale al fine del condizionamento dell’opinione pubblica, ovvero di quella massa corrispondente all’elettorato e alla “società pensante” dalla quale dipendono vita e morte dei regimi politici. E dato che informare può anche voler dire disinformare, cioè traviare volutamente, ne consegue che, come spiegava il grande burattinaio Licio Gelli, “il vero potere risiede nelle mani dei detentori dei mass media”.
Propaganda e disinformazione esistono dall’alba dei tempi, ma l’avvento delle società dell’informazione e il divenire del mondo un villaggio globale hanno elevato significativamente il potenziale destabilizzativo delle bufale (le cosiddette fake news) e naturalizzato progressivamente fenomeni quali le disinfodemie, le intossicazioni ambientali e gli inquinamenti informativi. Questi flussi ininterrotti e ininterrompibili di notizie provenienti da ognidove, teoricamente accurate eppure tra loro contrastanti, che tendono a dar luogo a delle veridiche esplosioni di informazioni, rendono le masse, oggi più che mai, esposte e vulnerabili a sovraccarichi e dissonanze di tipo cognitivo.
Le disinfodemie sono divenute una parte integrante della quotidianità di coloro che vivono nelle cosiddette società aperte – realtà che, in quanto libere e pluralistiche di natura, sono prive degli anticorpi necessari per combattere efficacemente le intossicazioni informative che infestano i loro ambienti –, ma vi sono dei periodi in cui sperimentano degli incrementi vertiginosi di intensità: crisi economiche, elezioni, emergenze sociali, guerre e pandemie. E quanto accaduto nel corso dell’ultimo anno e mezzo, con le ondate disinfodemiche relative al COVID-19 – dall’affidabilità dei vaccini alle origini del virus –, non è che un déjà-vu, o meglio una riedizione contemporanea di quello tsunami di bufale che travolse il mondo ai tempi della diffusione globale dell’HIV/AIDS.
La battaglia delle narrazioni sul Covid 19
In tempi di grande crisi ed incertezza, colui che sa come volgere l’irrazionalità umana a proprio favore è re. È per questo che le grandi potenze, una volta comprese le reali dimensioni dell’attuale emergenza sanitaria, hanno cominciato a fare leva sul potere dei mezzi di informazione, nuovi e tradizionali, per plasmare le convinzioni delle opinioni pubbliche proprie e altrui in merito alla pandemia. Stampa e politologia hanno dato un nome a questa forma di guerreggiamento, a sua volta da inquadrare nel contesto della guerra fredda 2.0 tra Occidente a guida americana e Oriente a trazione sino-russa: la battaglia delle narrazioni.
Da Pechino, dove l’imperativo era ed è quello di cancellare dalla memoria collettiva l’associazione “Cina=untore”, sono state diffuse teorie del complotto tese a scaricare la responsabilità del primo focolaio su Roma e a veicolare l’idea che il virus sia stato bio-ingegnerizzato in laboratorio da Washington e poi traghettato silenziosamente nel territorio cinese ai tempi della settima edizione dei Giochi mondiali militari, svoltasi a Wuhan nel mese di ottobre 2019.
A Washington, dove è cambiato il presidente, ma non il registro, pur essendo stata messa la parola fine alla campagna contro il “China Virus” lanciata dall’amministrazione Trump, ai servizi segreti è stata affidata la missione di risalire alle vere origini del Covid19 e la teoria del virus uscito dal laboratorio di Wuhan continua a monopolizzare il dibattito pubblico, perché pompata da grande stampa e politici di ogni partito.
Da Mosca, dove l’obiettivo era ed è quello di fare leva sui sentimenti vaccinofobici oltreconfine allo scopo di promuovere lo Sputnik V, è partita una campagna disinformativa avente come bersagli i prodotti delle case farmaceutiche euroamericane. E all’interno dell’Unione Europea, vittima inerme dei grandi giochi altrui fino ad un certo punto, media e politici, prevalentemente (ma non esclusivamente) appartenenti alla realtà liberal-progressista, hanno demonizzato lo Sputnik V sin dalla sua registrazione ufficiale e ne hanno sabotato l’ingresso nell’euromercato della sanità.
Il cospirazionismo medico dall’Hiv/Aids ad oggi
Quello che è accaduto nell’ultimo anno e mezzo non è che un déjà-vu, o meglio un déjà-vecu, per coloro che hanno vissuto i tremendi anni Ottanta. Tremendi perché per Europa occidentale e Stati Uniti sarebbero stati il decennio del crack, dell’eroina e, soprattutto, della propagazione di una piaga sconosciuta nota come Hiv/Aids.
Invisibile, avvolto da un manto di mistero, letale e particolarmente diffuso all’interno delle comunità afroamericane e omosessuali dell’America, il virus dell’Hiv era tutto ciò che di cui l’Unione Sovietica abbisognava per ammalare di paura e spaesare le società del benessere. E ci sarebbe riuscita. Come? Investendo tre miliardi di dollari l’anno in misure attive (active measures) nell’ambito dell’ipersegreta operazione Infektion, anche nota come operazione Denver.
Portata avanti dal Kgb di concerto con la Stasi, l’operazione Infektion nasceva con l’obiettivo di convincere l’opinione pubblica mondiale della natura artificiale dell’Hiv: un’arma biologica, rispondente ad una logica eugenetistica – la purificazione della White America da quei “mali” rappresentati da afroamericani e omosessuali –, che gli scienziati al servizio dello Stato profondo avevano realizzato nei laboratori di Fort Detrick (Maryland) e di cui gli scienziati comunisti, come Jakob Segal, avevano scoperto la vera origine.
Dal Secondo Mondo, notoriamente silente e sigillato ermeticamente, si sarebbe originato uno tsunami (dis)informativo a base di articoli di giornale, libri, pubblicazioni (pseudo)scientifiche e dichiarazioni scioccanti provenienti da anonime e improbabili gole profonde, che, alla ricerca di perdono e redenzione per l’enorme crimine perpetrato, avevano deciso di parlare ai microfoni della stampa sovietica.
I risultati dell’operazione Infektion si sarebbero manifestati nel breve periodo, come mostrato dallo scoppio di gravi isterie collettive nei luoghi più impensabili, come l’India, e dal supporto dello spazio postcoloniale eurafrasiatico alla tesi cospirativa – il “rapporto Segal” sulle origini artificiali dell’Hiv/Aids fu letto, discusso e distribuito durante l’ottava conferenza del Movimento dei paesi non allineati (Harare, 1986) –, e continuano ad essere visibili ancora oggi: nel 2005, secondo uno studio firmato Rand Corporation e università dell’Oregon, quasi la metà degli afroamericani credeva che l’Hiv fosse di origine artificiale, più di un quarto credeva che fosse stato realizzato in un laboratorio governativo e uno su otto credeva che fosse stato fabbricato e diffuso dalla Cia a scopo genocidario.
Le storie di successo delle operazioni psicologiche che ieri accompagnarono la diffusione dell’Hiv/Aids e che oggi stanno accompagnando il Covid19 – senza dimenticare il cospirazionismo di inizio anni Duemila circa le origini della Sars, da taluni ritenuta una bio-arma sviluppata dagli Stati Uniti per rallentare la crescita economica della Cina – ci insegnano e ci dicono qualcosa sulla natura umana: l’arcano affascina, strega e persuade, al di là della sua (in)verosimilità, perciò traviare le masse sarà sempre possibile.