L’America Latina è in subbuglio. Il continente si è riscaldato sulla scia dell’apertura di profonde crisi nella regione che hanno investito, a cascata, diversi Paesi dell’area e hanno riportato all’emersione di profonde linee di faglia che sembravano sotterrate da tempo.
In particolare, la situazione non giova agli Stati Uniti di Joe Biden che, complici le importanti priorità di politica estera riguardanti soprattutto il confronto con Russia e Cina, hanno di fatto messo in secondo piano il loro ex “cortile di casa” nella strategia diplomatica e geopolitica. Invertendo un trend di maggiore influenza nell’area inaugurato nell’era Trump anche, se non soprattutto, per rispondere a pressioni di matrice politica interna ed elettorale. La natura decisiva del sostegno degli esuli cubani e venezuelani per la conquista di Stati decisivi come la Florida nel 2016 e l’origine latina di alti papaveri repubblicani (Marco Rubio, Ted Cruz) ha fatto da volano a una profonda strategia di pressione contro i governi socialisti della regione e a un allineamento con le amministrazioni maggiormente aperte alla strategia Usa, come quelle di Brasile, Cile e Colombia.
Biden non ha finora espresso una vera e propria dottrina latinoamericana. Ma la situazione per gli Usa si è rapidamente incartata sulla scia di una rapida serie di cambiamenti sistemici.
In primo luogo, i cambi di governo in Bolivia e Perù e la vittoria referendaria delle sinistre in Cile hanno fatto rapidamente tramontare le prospettive di un consolidamento dei governi filo-statunitensi nella regione. Portando al potere una versione più moderata e meno tribunizia del “socialismo del XXI secolo” di stampo chavista in Paesi da sempre ritenuti termometro dell’evoluzione politica latinoamericana e avviando in Cile la rottamazione della residua eredità della dittatura di Pinochet.
In secondo luogo, non è da sottovalutare la crisi sistemica del Brasile di Jair Bolsonaro. Per quanto assimilabile a Donald Trump piuttosto che a Joe Biden, il presidente e leader dell’estrema destra del colosso sudamericano è un vero e proprio “gendarme” degli Stati Uniti, in quanto la sua ascesa al governo ha ridimensionato il potenziale critico della corrente connessa a Lula e Dilma Rousseff che sull’amministrazione Obama, di cui Biden era vicepresidente, riversano profonde accuse per la condotta politica tenuta in occasione del cambio di governo nel 2016 e dell’inizio dello scandalo Lava Jato. Il disastroso flop di Bolsonaro contro la pandemia, i nuovi scandali e il rischio di un collasso politico e sociale del Paese, inoltre, rischiano di aprire un vero e proprio buco nero con conseguenze catastrofiche per la sicurezza degli Usa nella regione.
Terzo problema, per Washington, è un vecchio scenario uscito dal radar mediatico negli ultimi mesi ma non meno caldo rispetto al passato: il Venezuela. Paese in cui gli Stati Uniti non hanno più, di fatto, una strategia dopo che Juan Guaidò ha fallito la possibilità di disarcionare dal potere Nicolas Maduro e dopo il goffo fallimento dei tentativi di sovversione del regime di Caracas operato da John Bolton ai tempi di Trump. Il caos venezuelano, a cascata, crea problemi nella confinante Colombia, alimenta l’esodo di profughi e minaccia la tenuta del mercato petrolifero regionale, senza che gli States possano in alcun modo intervenire.
Vi è poi, infine, la destabilizzazione del pre-carrè americano nell’area, i Caraibi. Qui i Paesi da monitorare sono Haiti e Cuba. Nelle ultime settimane si è avuto prima il caos nella repubblica francofona, a seguito dell’omicidio del presidente Jovenel Moise, e poi lo scoppio delle proteste nell’Isla Bonita, precipitata nell’incertezza per la prima volta dalla fine dell’era Castro. Sul primo fronte Haiti è una bomba sempre potenzialmente pronta a esplodere e per gli Usa il collasso di uno Stato fallito a poche centinaia di chilometri dalla Florida comporterebbe uno scenario di incertezza non secondario; sul secondo, invece, Biden avrebbe potenzialmente nel suo interesse il raggiungimento di un compromesso volto a congelare le tensioni dell’era Trump e l’irrigidimento dei rapporti bilaterali tra Washington e L’Avana, ma la dicotomia politica creata dalle proteste non fa altro che aumentare la diffidenza e le distanze.
In sostanza, a Biden manca un’agenda latinoamericana. Una visione strategica in grado di proiettare gli Usa nel cortile di casa e prevenire influenze esterne come quelle di Cina e Russia. Due decenni di miopia strategica hanno portato a una situazione molto critica per Washington che si trova, di fatto, in difficoltà nel controllare un’area a lungo esposta alla sua disponibilità totale. E dall’esplosione del narcotraffico alla ripresa dei flussi di migranti questo può creare problematiche a cascata in diversi scenari. Il calo della presa politica degli States sull’America Latina fa il resto: nella geopolitica del XXI secolo il peggior errore che una potenza possa compiere è affidare la sua linea a una sostanziale inerzia.