C’è una precisa data di inizio dell’attuale scia di instabilità che sta attanagliando l’Africa. È il 21 marzo 2012, giorno in cui a Bamako, capitale del Mali, alcuni militari provenienti dalla base militare di Kati hanno preso il potere e deposto l’allora presidente Amadou Toumani Touré. Da allora, gli eserciti sono diventati decisivi attori protagonisti nell’intera regione del Sahel. E oggi il “vento golpista” sembra diffondersi oggi in buona parte del continente.

Di certo, però, l’Africa non sta conoscendo soltanto adesso le esperienze relative ai colpi di Stato. Ma nell’ultimo decennio l’interventismo dei militari è di gran lunga accentuato. Con implicazioni geopolitiche interne ed esterne al continente al momento imprevedibili.

Dal Mali alla Repubblica Centrafricana, i primi segnali di instabilità nel Sahel

Le immagini delle bandiere russe a Niamey, capitale del Niger, in occasione del recente colpo di Stato attuato nel Paese africano hanno suscitato non poco clamore. In particolare, si è avuta l’impressione di un duello tra Mosca e l’occidente trasferito in Africa e con l’opinione pubblica locale sbilanciata a favore del Cremlino in funzione anti occidentale e anti coloniale. In realtà però la crisi nel Sahel ha origini lontane. Come detto, occorre andare indietro fino al golpe nel Mali del 2012. In quell’occasione l’intervento militare ha avuto ragioni prettamente interne. Il Paese era alle prese con la ribellione dell’Azawad, la regione settentrionale a maggioranza tuareg che aveva proclamato la secessione. Un contesto forse favorito anche dalla fine drammatica in Libia del regime di Gheddafi, avvenuta con la cattura e la morte del rais a Sirte pochi mesi prima.

I militari maliani, indispettiti da una pessima gestione del conflitto nel nord del Paese, si sono mossi nel marzo 2012 contro l’allora presidente Touré. Le giunte militari successive e i governi nati dopo travagliati periodi di transizione non hanno espresso da subito una retorica anti francese e anti occidentale. Al contrario, vista l’avanzata dei gruppi jihadisti nell’Azawad favorita dal caos di quei mesi, è stata avviata una collaborazione con Parigi per l’invio di truppe francesi nel Paese. Sono così iniziate le operazioni Serval e Barkhane, il cui obiettivo era l’eliminazione della minaccia islamista nel Sahel.

Anche nella vicina Repubblica Centrafricana, dove nel 2013 la coalizione dei Seleka ha spodestato l’ex presidente Francois Bozizé, il repentino cambio di regime ha avuto un’origine prettamente interna. A giocare un ruolo decisivo in questo caso sono state le ataviche e mai risolte diatribe etnico-politiche centrafricane.

La debolezza degli Stati subsahariani

Dopo la presa di potere da parte dei militari a Bamako, in tutto il Sahel è passato il messaggio secondo cui i gravi problemi dell’area possono essere risolti con un repentino ribaltamento del sistema politico. È per questo che molti eserciti sono intervenuti ricevendo anche il sostegno da parte dell’opinione pubblica. Nell’aprile del 2019, quando i militari hanno circondato la casa dell’allora presidente sudanese Omar Al Bashir, la gente è scesa in piazza per festeggiare. A Khartoum molti giovani hanno avuto la sensazione di aver conquistato, grazie all’azione dei soldati, la democrazia. Si tratta delle stesse scene di giubilo viste poi pochi anni dopo a Ouagadougou e Niamey. Nel settembre del 2021, quando l’allora presidente della Guinea Alpha Condé ha annunciato di voler forzare la costituzione e continuare con un altro mandato, i militari hanno deciso di attuare un nuovo golpe.

L’intervento degli eserciti però sottintende una debolezza tanto politica quanto strutturale dei vari Paesi coinvolti. L’attuazione di un golpe mostra infatti la mancanza sia di una società civile in grado di incidere nel processo decisionale e così come di una valida alternativa, all’interno degli apparati statali, all’interventismo dei militari.

Lo si è visto anche in Ciad nell’aprile del 2021, quando il presidente Idriss Déby è stato ucciso in prima linea mentre i ribelli entrati dalla Libia minacciavano la capitale N’Djamena. Dopo la sua morte, i generali hanno imposto la nomina del figlio Mahamat Déby come nuovo capo di Stato. In tal modo è stata sospesa la costituzione e ancora una volta l’esercito è stato visto come unico attore in grado di preservare la stabilità.

Soldati ciadian in un veicolo parcheggiato davanti a un manifesto elettorale del defunto presidente Idriss Deby lungo il ciglio di una strada a N’Djamena, in Ciad, il 23 aprile 2021. Il presidente del Ciad Idriss Deby è morto per le ferite riportate negli scontri con i ribelli nel nord del Paese. Deby era al potere dal 1990 ed era stato rieletto per un sesto mandato nelle elezioni dell’11 aprile 2021. I funerali di Stato si sono tenuti la mattina del 23 aprile 2021, alla presenza del presidente francese Emmanuel Macron. Foto: EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON / POOL.

I problemi economici che attanagliano il continente

La debolezza dei Paesi africani ha origini soprattutto economiche. E le principali rivendicazioni delle varie popolazioni interessate dagli interventi golpisti sono quindi di natura economica. In Mali, così come in Niger, in Burkina Faso e in gran parte della fascia sub sahariana, in migliaia vivono al di sotto della soglia di povertà. La situazione nell’ultimo decennio è andata peggiorando. Soprattutto nelle regioni più remote dei Paesi in questione, è impossibile trovare lavoro e mezzi di sostentamento per le proprie famiglie. Una circostanza che, soprattutto nel Sahel, sta favorendo tra le altre cose il proselitismo di matrice jihadista e l’emersione di gruppi criminali e dediti al contrabbando.

Un circolo vizioso di difficile soluzione. L’instabilità causa povertà e, a sua volta, la povertà richiama ulteriore instabilità. L’opinione pubblica nel Sahel ha puntato il dito sia contro i propri sistemi politici che contro l’influenza di attori internazionali. Da qui l’ampio sostegno dato ai militari arrivati al potere e la diffusione del “vento golpista” nella regione.

Il sentimento anti occidentale

La retorica anti occidentale, all’interno di questa catena di eventi, è piuttosto recente. Ancora una volta il Paese da cui tutto è partito è il Mali. Qui il deterioramento delle condizioni di sicurezza ha dato ai cittadini una percezione molto negativa della presenza francese. Parigi a più riprese è stata accusata di velleità imperialiste nascoste dalla volontà ufficiale di lottare contro il terrorismo. Già a ridosso delle elezioni del 2018, quelle che hanno incoronato Ibrahim Boubacar Keita quale nuovo presidente, in molti comizi si è fatto ampio riferimento alla possibilità di affrancarsi dalla Francia.

A spingere in questa direzione sono state anche le autorità religiose. Tra queste ad esempio l’imam Mahmoud Dicko, capo del consiglio islamico del Mali. I suoi discorsi hanno spesso puntato l’accento sulla cattiva gestione dello Stato, sull’incompetenza della classe politica, ma anche sui danni derivanti dalle operazioni francesi e, più in generale, dall’influenza di Parigi sul Paese. Una retorica tanto anti occidentale quanto anti coloniale, seguita poi da diversi politici e dagli stessi militari.

Per questo il golpe dell’agosto 2020 ha avuto una connotazione diversa da quello di otto anni prima. Il generale artefice del colpo di Stato, Assimi Goita, ha apertamente parlato della possibilità di un definitivo allontanamento dalla sfera di influenza francese. Circostanza ribadita in occasione di un secondo golpe, attuato sempre da Goita nel maggio del 2021. La fine dell’operazione Barkhane e l’avvicinamento alla Russia e alla compagnia Wagner, espresso con il voto di Bamako in linea con Mosca in diverse risoluzioni sulla guerra in Ucraina, hanno dato ulteriore dimostrazione della nuova politica anti occidentale. Non solo in Mali, ma anche nei Paesi confinanti.

La linea anti francese, culminata con l’ordine di abbandono del proprio territorio comunicato alle truppe di Parigi, è stata sposata anche dalla giunta militare in Burkina Faso che nel 2022, con un altro golpe, ha preso il potere a scapito dell’ex presidente Roch Kabore. Il colpo di Stato in Niger ha rappresentato quindi soltanto l’ultimo degli episodi da ricollegare alla crescita di una profonda insofferenza nei confronti dell’ex madrepatria coloniale, ossia la Francia, e dell’influenza occidentale.

Le peculiarità del golpe in Gabon

Il Gabon è in ordine di tempo l’ultimo Stato africano ad aver subito un colpo di Stato. Il presidente Ali Bongo è stato detronizzato dall’intervento dei militari, guidati dal cugino Brice Clotaire Oligui Nguema. Rispetto al Niger però, l’azione dei soldati non sembra avere una particolare connotazione geopolitica e anti occidentale. Appare, al contrario, un regolamento di conti interno favorito ancora una volta della debolezza del Paese, dalla percezione di una forte corruzione e dal malcontento popolare.

La domanda sorge quindi spontanea: la spirale golpista in Africa è destinata a continuare? Il rischio principale nell’immediato è dato dalle aspettative rivolte verso i militari in molti Paesi del continente. Aspettative in grado di alimentare velleità golpiste in altri Stati caratterizzati da povertà e debolezza interna.

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