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Per Donald Trump il mercato mondiale dell’energia è un terreno di primario interesse: il presidente repubblicano mira a consolidare lo stato attuale di cose che vede gli Stati Uniti in testa alla classifica globale dei produttori di petrolio e gas naturale e, in prospettiva, prossimi a conquistare la vetta tra le potenze esportatrici di oro nero. Gli Stati Uniti hanno nel cartello delle potenze esportatrici di petrolio, l’Opec, un rivale primario per la definizione dei prezzi sui mercati internazionali. Negli anni scorsi, il palese gioco ribassista guidato, soprattutto, dall’Arabia Saudita ebbe un ruolo importante nel mettere in crisi i produttori di shale oil statunitensi, i cui guadagni acquisiscono salienza solo in presenza di prezzi elevati.

Ora, tuttavia, la presenza di Washington come attore forte e concorrenziale ha messo in crisi l’influenza esercitata dall’Opec, che ha dovuto cercare una sinergia con la Russia per stabilire politiche congiunte di taglio alla produzione tali da riportare i prezzi a un livello più elevato. Politiche favorite, invero, dalla crisi sistematica del settore petrolifero di due membri Opec che, ironicamente, Washington considera rivali sistemici: Venezuela e Iran. Con la Repubblica Bolivariana che paga sulla sua pelle il dissesto economico ed istituzionale e Teheran che soffre la pressione delle rinnovate sanzioni.

Ora Trump ha il problema inverso rispetto all’amministrazione Obama, che temeva una situazione di prezzi eccessivamente bassi: rendere sostenibile la politica americana di energy dominance ma, al tempo stesso tutelare la stabilità dei mercati globali in modo tale che fluttuazioni eccessive delle materie prime impattino sulla crescita statunitense, che il presidente punta a mantenere attorno al 3%. Da qui una guerra strisciante con l’Opec, culminata nel famoso tweet in caps lock “RIDURRE I PREZZI ORA” del luglio 2018.

Ora, in un contesto che vede un incremento degli indici petroliferi principali di circa il 30% da inizio anno, Trump ha cambiato strategia, parlando agli interlocutori Opec con toni sorprendentemente distesi nella giornata del 29 marzo. “È molto importante che l’OPEC aumenti il flusso di Petrolio” ha scritto l’inquilino della Casa Bianca, sottolinea Il Sole 24 Ore, “insistendo sugli stessi concetti della volta precedente, ma con toni sorprendentemente educati e gentili, al punto da ringraziare gli interlocutori”.

Un cambio di approccio netto, che del resto ha influenzato solo episodicamente i mercati globali del greggio: il tweet della Casa Bianca ha causato un affondamento pressoché istantaneo del greggio al mercato di New York, con un calo delle quotazioni del 2%, seguito in tempi brevi da una ripresa. La volatilità dei prezzi è talmente elevata da rendere possibili anche scostamenti del genere.

Segno che anche questa strategia potrebbe non pagare: alle parole di Trump non sono seguite azioni concrete capaci di influenzare i mercati oltre il facilmente riassorbibile effetto immediato delle dichiarazioni del Presidente. “L’Opec – o meglio, l’Arabia Saudita – non sembra più disposta a scendere a patti con gli Stati Uniti, come aveva fatto prima delle sanzioni con l’Iran, salvo poi veder crollare il prezzo del greggio quando poi Trump a sorpresa ha concesso esenzioni a pioggia. […] Se molti tagli Opec non sono volontari – di certo non lo sono in Venezuela, dove di nuovo i blackout sono tornati a paralizzare il Paese – finora però i sauditi non ci stanno affatto ‘andando piano’: le esportazioni di Riad sono crollate sotto 7 mbg e le vendite agli Usa in particolare sono diminuite di due terzi rispetto a un anno fa”.

Washington potrebbe essere costretta a un nuovo braccio di ferro. Sapendo, però, che nel mondo sono diverse, oramai, le nazioni disposte ad assecondare la sua agenda energetica. I ministri energetici di Polonia, Brasile e Israele, ad esempio, hanno recentemente mostrato il loro sostegno alle mosse dell’amministrazione Trump al meeting CeraWeek di Houston. Se braccio di ferro sarà, Trump certamente ha le carte ideali per spingere l’Opec all’angolo. Prima fra tutte l’arma delle sanzioni. A cui dovrà aggiungersi la supremazia crescente di Washington nel mercato del gas naturale e la sua prossima trasformazione in potenza esportatrice. Fatto che potrebbe danneggiare ulteriormente la lobby del petrolio.