Fino al 21 gennaio 1994 la vita di Bashar Al Assad era tutto sommato “normale”, per quanto possa apparire normale la vita di un secondogenito del presidente siriano. Studente di oftalmologia a Londra, nel suo futuro c’erano soltanto gli studi di medicina ed una quotidianità da vivere il più possibile nella capitale britannica. Quel giorno però Bashar riceve una chiamata destinata a cambiare il suo futuro, quello della sua famiglia e quello della Siria: da Damasco gli è stato comunicato che il suo fratello maggiore, Basil Al Assad, è morto a seguito di un incidente stradale. A quel punto, il padre Hafez Al Assad non ha dubbi: per la successione dovrà essere Bashar il principale candidato. E così, lasciata Londra, l’allora 28enne ex studente di oftalmologia deve tornare in patria per “studiare” da presidente.
Luglio 2000: Bashar Al Assad diventa presidente
Se la sua designazione ha a che fare con un evento tragico che ha coinvolto la sua famiglia, non è da meno la sua definitiva scalata alla presidenza. L’11 giugno del 2000 infatti, mentre è al telefono con il suo omologo libanese, Hafez Al Assad è colto da infarto e muore poco dopo i soccorsi. Per il Paese è un trauma: la morte del fondatore della Siria moderna coglie di sorpresa i cittadini, ma soprattutto lo stesso Bashar. Il quale, in quel momento, ha solo 34 anni e quindi uno in meno rispetto all’età minima prevista dalla costituzione per diventare presidente. Tuttavia, viene fatta una deroga ed allora tra giugno e luglio vengono avviate tutte le procedure per far insediare Bashar Al Assad come nuovo capo dello Stato. La Siria è sì una repubblica, tuttavia il padre Hafez aveva fatto intuire le proprie intenzioni di lasciare la presidenza all’interno della sua stessa famiglia. Una scelta volta probabilmente a non alimentare un possibile vuoto di potere subito dopo la sua uscita di scena e ad evitare possibili lotte per il potere.
Una volta designato ufficialmente come erede, Bashar l’11 luglio del 2000 viene confermato come presidente da un plebiscito che vede il via libera da parte del 99.7% da parte dei cittadini votanti. Il 17 luglio invece, si insedia come nuovo presidente della Siria, nonché capo delle forze armate e segretario del partito Baath, la formazione politica portata al potere dal padre. Pochi mesi dopo, Bashar si sposa: nuova first lady siriana diventa Asma Al Assad, conosciuta durante il periodo londinese e soprannominata “la Lady D del Medio Oriente”. Un fatto da non trascurare, perché l’immagine della moglie in occidente è stata molto importante soprattutto durante i primi anni della presidenza.
Dagli entusiasmi iniziali alla Primavera araba
La scalata al potere da parte di Bashar Al Assad è salutata positivamente in molte cancellerie internazionali. Il nuovo presidente viene visto come un leader giovane e potenzialmente in grado di attuare importanti riforme, sia a livello economico sia sotto il profilo della democrazia. Le prime mosse a livello interno confermano l’immagine di Bashar come quella di un presidente in grado di riformare diversi aspetti della vita della Siria. Tanto che, tra il 2000 ed il 2001, si è parlato anche di “Primavera di Damasco“, con riferimenti ai primi allentamenti sui controlli sulla stampa, la nascita di nuove associazioni di intellettuali e di movimenti che arricchiscono il dibattito politico, nonché il via libera a diverse ong collegate al governo, come quella del Fondo per lo sviluppo rurale Integrato in Siria, voluta da Asma Al Assad. In occidente però gli entusiasmi su Bashar si raffreddano quando si intuisce che la linea di Damasco in politica estera avrebbe ricalcato quella degli anni precedenti. Quando il presidente Usa George W. Bush, all’indomani dell’11 settembre 2001, stila la lista dei cosiddetti “Stati canaglia“, la Siria è tra questi insieme ad Iran, Iraq, Corea del Nord, Libia, Yemen e Sudan.
Il clima dunque non è dei migliori: Assad, dagli Stati Uniti così come da Israele, è visto come un leader “ambiguo”. Una situazione che rischia di precipitare nel 2005, con la morte dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, primo vero banco di prova internazionale per Bashar. Accusato di essere stato mandante o comunque ispiratore, per il tramite dei propri servizi segreti, dell’omicidio del politico libanese, il presidente siriano viene messo sotto pressione affinché ritiri l’esercito dal Paese dei cedri, dove è presente dagli accordi che nel 1989 hanno sancito la fine della guerra civile libanese. Nonostante il via libera all’uscita dei siriani dalla nazione confinante, la Siria continua ad essere nel mirino della diplomazia internazionale. E, quando nel marzo del 2011 arriva la scia della Primavera araba sviluppatasi in quell’anno in diversi Paesi del Medio Oriente, Assad viene subito delegittimato da parte dei governi occidentali, i quali iniziano ad appoggiare i gruppi dell’opposizione. Comprese le formazioni integraliste e jihadiste.
La guerra e le sanzioni
In questi venti anni di presidenza, indubbiamente l’elemento più duro ed importante affrontato da Bashar Al Assad riguarda il capitolo della guerra civile. Iniziata nel 2011, a più riprese tra il 2012 ed il 2013 il governo siriano sembra prossimo a capitolare. Il conflitto vede il contrapporsi tra l’esercito di Damasco e i vari gruppi dell’opposizione, molti dei quali rappresentati da sigle jihadiste ed islamiste. Anche perché lo zoccolo duro dell’opposizione ad Assad è sempre stato quello legato alla Fratellanza Musulmana, durante la guerra però ad emergere è stato soprattutto il ruolo di Al Qaeda, tramite il Fronte Al Nusra, e dell’Isis guidato da Abu Bakr Al Baghdadi. Nonostante l’esercito siriano ha dovuto fronteggiare il terrorismo di matrice islamista, Assad non è stato riaccreditato dalle cancellerie occidentali. Le quali anzi, anno dopo anno, hanno rinnovato le sanzioni economiche sia alla Siria che i singoli esponenti riconducibili al governo. Stessa situazione nei rapporti con il mondo arabo: Damasco è stata espulsa dalla Lega Araba già nel 2011, oggi soltanto pochi governi dell’area hanno rapporti ufficiali ed istituzionali con Assad.
La guerra tuttavia è già da anni indirizzata verso un esito positivo per il presidente siriano: dal 2015 in poi, da quando la Russia è intervenuta direttamente al fianco di Damasco, l’esercito ha ripreso il controllo di più del 60% del Paese, così come di tutte le principali città. Da Aleppo ai quartieri ad est di Damasco, passando per Homs, Daraa e la provincia di Deir Ezzor, la bandiera siriana è tornata a sventolare gradualmente in buona parte del territorio nazionale. La principale preoccupazione per Assad è data dalla provincia di Idlib, dove si concentrano buona parte delle zone ancora fuori dal controllo del suo governo e dove è sempre molto acceso il rischio di un confronto diretto con la Turchia, tra i principali sponsor dei gruppi dell’opposizione.
L’alleanza con Putin
Elemento principale della politica estera di Bashar Al Assad è dato dall’alleanza con la Russia di Vladimir Putin. Il rapporto tra Damasco e Mosca è molto datato nel tempo e risale agli anni ’70, quando la Siria ha concesso all’allora Unione Sovietica quella che ancora oggi è l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Il rapporto, durante il conflitto civile siriano, si è solidificato tanto che il 30 settembre 2015 il Cremlino ha deciso il proprio ingresso diretto sulla scena inviando a supporto della Siria mezzi e uomini. Da quel momento in poi Bashar Al Assad ha visto la guerra capovolgersi a suo favore, in quel momento invece la situazione militare vedeva l’esercito siriano in grave affanno e difficoltà. Oggi, in previsione anche della fine del conflitto, l’asse Damasco – Mosca appare quello più solido su cui può contare il presidente siriano. Quest’ultimo però ha anche altri alleati: dall’Iran, che punta sulla Siria per la strategia della cosiddetta “mezzaluna sciita”, agli Hezbollah libanesi, la rete che ha schermato Assad al potere sarà significativa anche nel dopoguerra.
Le prospettive future
Oltre al discorso relativo alla guerra, le sfide per la presidenza di Assad a vent’anni dal suo insediamento appaiono molteplici. In primis, ci sarà da ricostruire un intero Paese: la Siria è distrutta, il conflitto ha totalmente o parzialmente danneggiato buona parte delle sue infrastrutture, molte città convivono con quartieri ancora fantasma e lontani dal rientrare in un contesto di normalità. La ricostruzione non sarà semplice: le sanzioni ed un parziale isolamento internazionale non stanno consentendo la ripresa dell’economia, la quale anzi sta vivendo momenti molto duri acuiti dalla recente emergenza coronavirus. All’interno del potere siriano intanto, è scoppiata una vera e propria faida: Bashar ha di fatto estromesso il cugino Rami Makhlouf, uomo più ricco di Siria e principale azionista di Syriatel, principale compagnia telefonica del Paese. Possibile che sia in atto, in vista delle prossime mosse di riabilitazione a livello internazionale e di riassestamento post bellico, un’azione di “ristrutturazione” degli equilibri di potere sia politico che economico interno ed esterno alla famiglia Assad.
Incerto comunque il destino di Bashar: lui personalmente gode di una certa popolarità, acuita durante il conflitto e le avanzate dell’esercito ed ha un mandato che ufficialmente scade nel 2021 dopo la vittoria elettorale del 2014. C’è chi ipotizza, in vista delle future presidenziali, un suo passo indietro, c’è chi invece ritiene azzardato in questa fase del conflitto e della storia della Siria una non candidatura di Bashar Al Assad. Tutto dipenderà anche dalle evoluzioni politiche della crisi siriana e, in particolare, dalla possibilità dell’introduzione di un’eventuale nuova costituzione e del peso che potrebbe essere concesso ad altri attori dello scacchiere del Paese arabo in fase di trattative post belliche.