Le immagini che giungono dall’Afghanistan sono desolanti, tragiche e sconfortanti. Tolgono il fiato, fanno riflettere, suscitano rabbia. Hanno persuaso la maggioranza che la cattura di Kabul sia la versione contemporanea della caduta di Saigon, e che il ritorno al potere degli studiosi del Corano sia comparabile all’ascesa inarrestabile dei nordvietnamiti di Ho Chi Minh, anche se, in realtà, un parallelo particolarmente calzante è quello di Roma 476.

Ashraf Ghani come Romolo Augusto è un imperatore che ha assistito inerme all’arrivo delle orde barbariche alle porte della capitale, e che nulla ha fatto e/o potuto per fermare la loro avanzata. E Hibatullah Akhundzada, similmente ad Odoacre, è il prode condottiero che i barbari hanno incoronato loro re e che, conquistata la fiducia dei signori della guerra e delle tribù e soggiogati gli apparati-chiave a mezzo della paura, ha proceduto a deporre l’imbelle Ghani.

L’Impero che cade, però, non è quello degli Stati Uniti – sebbene le analisi a caldo stiano descrivendo il 15.08.2021 come la loro Caporetto –, ma quello della Repubblica dell’Afghanistan. Un impero fragile per mille motivi – perché artificiale, perché multinazionale, perché diviso dai tribalismi, perché conteso da una pluralità di potenze, perché incompreso – e che, perciò, prima o poi sarebbe caduto. E l’amministrazione Biden, capendo e rispettando le ultime volontà dell’amministrazione Trump, non ha fatto che accettare la (triste) realtà e porre fine ad un ventennio di infruttuoso, insostenibile e costoso progetto di state- e nation-building.

E nel mentre che europei e statunitensi scappano, scortati e tratti in salvo dai loro corpi militari, gli abitanti di Roma, cioè Kabul, si disperano nel tentativo di fuggire dalla furia iconoclastica ed oscurantistica dei soldati di Odoacre, ovvero i talebani di Akhundzada. Perché v’è un motivo se gli afghani stanno assaltando le frontiere, cercando la salvezza negli –stan, in Iran e in Turchia. Che è lo stesso, tra l’altro, dell’accerchiamento dell’aeroporto internazionale di Kabul, preso d’assalto dai civili tra il pomeriggio e la sera del 15, cioè nei momenti in cui i Talebani entravano nella capitale. Il motivo è la paura, tutt’altro che astratta, che gli studiosi del Corano, sostituendo la Repubblica con l’Emirato, vogliano instaurare un regime teocratico basato su un’applicazione rigida ed eterodossa della Shari’a.

L’incubo teocrazia

Mohammad Naeem, il portavoce ufficiale dei talebani, sta invitando la popolazione afghana alla calma, dopo che almeno cinque persone sono morte durante l’assalto all’aeroporto di Kabul. I talebani, ha spiegato Naeem ai microfoni di Al Jazeera, “non vogliono vivere nell’isolamento, presto chiariranno il tipo e la forma di nuovo governo dell’Afghanistan” e desiderano intrattenere delle “relazioni pacifiche” con il resto del mondo. I Talebani, inoltre, come spiegano da diverso tempo, non sarebbero assetati del sangue dei “collaborazionisti” e dei “traditori della patria” – cioè di coloro che, in questi vent’anni, hanno lavorato con gli occupanti euroamericani, credendo nella loro causa –, perché, al contrario, sarebbero disposti a concedere un’amnistia generale. E i talebani, infine e soprattutto, non vorrebbero sottomettere e perseguitare donne e laici, ma, molto più semplicemente, limitare la loro esposizione nella vita pubblica.

Proclami e rassicurazioni, quelle degli eredi dei mujaheddin, che, però, non hanno convinto una parte consistente della popolazione, come mostrano e dimostrano episodi quali l’assedio dell’aeroporto di Kabul e l’esodo biblico che sta poco a poco svuotando la nazione – almeno 550mila persone, secondo le Nazioni Unite, avrebbero espatriato dall’inizio di quest’anno. E perché gli afghani non credano alle promesse dei Talebani è presto detto: la segregazione sessuale è stata informalmente ripristinata, le segnalazioni di stupri di guerra e matrimoni forzati sono in aumento e le esecuzioni sommarie di presunti criminali, miscredenti e collaborazionisti dilagano.

Un déjà-vu, un déjà-vecu

Quello che sta accadendo in Afghanistan è indubbiamente sconvolgente, sì, ma non è per nulla sorprendente: non è altro, infatti, che un déjà-vu, o meglio un déjà-vecu. Perché i Talebani ebbero il modo di mostrare alla comunità internazionale gli orrori e le brutalità del loro sogno – un califfato intrinsecamente totalitario e totalizzante, basato sull’imposizione coercitiva dei dettami della Shari’a e del Pashtunwali ed impegnato in un’opera di ripulizia iconoclastica (vedasi il caso dei Buddha di Bamiyan) – già ai tempi del primo Emirato dell’Afghanistan (1996-2001).

E in questi attimi concitati, dove alcuni fuggono e altri cambiano casacca, e dove sia i primi sia i secondi vengono accusati di codardia, soltanto una cosa è sicura come l’oro: i tribunali improvvisati della rete non hanno alcun diritto di emettere sentenze. Perché gli afghani non hanno dimenticato il trauma culturale del primo Emirato. E perché Ghani e i suoi fedeli, abbandonati da quell’Occidente in cui hanno creduto e che stanno trovando rifugio all’estero, hanno memoria di ciò che accadde a Mohammad Najibullah, il quarto ed ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan.

Najibullah, una figura la cui tremenda fine è caduta nel dimenticatoio, fu evirato e squartato vivo su ordine del mullah Omar, poco dopo la cattura di Kabul del 1996 ad opera dei Talebani. Il suo corpo esanime e irriconoscibile, scuoiato con una ferocia ed una metodica simili a quelle impiegate dagli ottomani contro Marcantonio Bragadin, fu poi issato come una bandiera davanti al palazzo presidenziale, l’Arg di Kabul, affinché tutti potessero vederlo e, incoraggiati dal terrore di una sorte simile, giurassero fedeltà al Califfato.

Una storia, quella della martirizzazione di Najibullah, che qui in Occidente alcuni hanno dimenticato, e che altri, invece, ignorano completamente, ma che in Afghanistan viene ricordata e tramandata di padre in figlio. Coloro che scappano, dunque, non lo fanno per codardia, ma per evitare il destino di Najibullah – che da giorni sta toccando ad un numero indefinito di afghani – e ricercare la cosa più importante: la sopravvivenza.