Il 2016 è senza dubbio l’anno dei referendum nel vecchio continente; alcuni importanti, altri meno, così come alcuni appaiono mediaticamente molto esposti, mentre altri non hanno lo stesso seguito, ma il filo comune tra tutti è indubbiamente costituito dal fatto che queste consultazioni sono destinate a cambiare diversi scenari in seno all’Europa: dopo il referendum sulla Brexit, in attesa di quello ungherese sul piano dei migranti e di quello italiano sulla riforma costituzionale, quasi in sordina nella giornata di domenica alle urne si sono recati i cittadini di una delle Repubbliche federate che compongono la Bosnia Erzegovina, uno dei paesi più caldi di una altrettanto calda regione quale quella dei Balcani.In particolare, agli elettori della Repubblica Srpska (l’entità territoriale serba interna alla federazione bosniaca) è stata posta la seguente domanda: “Volete che il 9 gennaio diventi ufficialmente la festa nazionale della Repubblica Srpska?”; un quesito referendario apparentemente di poco conto, ma che in realtà cela non poche incognite ed ha una grande importanza nell’equilibrio (molto precario) della federazione nata con gli accordi di Dayton del 1995, al termine di una sanguinosa guerra civile.Infatti, quel 9 gennaio a cui si fa riferimento è un giorno molto particolare che da circa un quarto di secolo in pochi vogliono evocare: il 9 gennaio 1992, Radovan Karadzic dichiara la nascita della Repubblica Serba di Bosnia, indipendente ed autonoma dal governo federato bosniaco di Sarajevo, in procinto di dichiararsi a sua volta distaccato dalla Jugoslavia. Tutto quanto segue a quelle due dichiarazioni unilaterali di indipendenza (con soltanto quella bosniaca riconosciuta dagli USA e dall’UE) è storia tristemente nota: la guerra civile, i massacri da ambo le parti, la pulizia etnica e quanto di più atroce questa regione periferica dell’Europa vive tra il 1992 ed il 1995. La guerra, come detto sopra, si ferma con gli accordi di Dayton e la nascita dell’attuale Bosnia Erzegovina con Sarajevo capitale, in cui viene riconosciuta l’autonomia della Repubblica Srpska federata con il neonato stato centrale; in poche parole, in cambio della loro fedeltà al governo bosniaco ed alla rinuncia di una propria indipendenza o di un’unione con Belgrado, ai serbi di Bosnia viene affidata la gestione di un’entità territoriale tutta loro la quale comprende il 49% dell’intero territorio controllato da Sarajevo. Un intreccio, un vero e proprio ‘pasticcio’ per molti, salutato però dalla comunità internazionale in maniera molto positiva 21 anni fa, ma che oggi inizia a far vedere i suoi aspetti più negativi: questo assetto bosniaco, crea di fatto più barriere che ponti tra le varie entità che compongono il paese ed oggi, con la crisi economica che avanza e con il governo di Sarajevo prossimo a concludere gli accordi di adesione all’Unione Europea, le tensioni si fanno sempre più importanti.I serbi di Bosnia della Srpska non vedono di buon occhio né l’ingresso nell’orbita di Bruxelles, né i tanti piani di privatizzazione effettuati in questi anni dal governo centrale bosniaco per assecondare i trattati di adesione all’UE; i contatti con Belgrado e con la madrepatria serba non vogliono essere persi, al tempo stesso le condizioni economiche sempre meno rosee dell’intera federazione bosniaca, che già nel 2014 provocano proteste e scontri in tutto il paese, acuiscono l’insofferenza: è in questo quadro che alla presidenza della Repubblica Sprska nel 2010 viene eletto Milorad Dodik, a capo dell’alleanza dei socialdemocratici e fautore di una maggiore autonomia da Sarajevo, pur se mai ufficialmente a favore di una vera e propria indipendenza.La storia personale di Dodik, mostra il forte legame che i serbi bosniaci hanno con la Serbia: laureato presso l’Università di Belgrado, presidente della squadra di basket del Partizan di Belgrado, l’attuale leader della Sprska si è da subito battuto per evitare un costante allontanamento dai ‘cugini’ confinanti. Il referendum di giorno 9 è sostanzialmente una sua ‘creatura’; l’esito è scontato: al voto si reca il 55% della popolazione, il 98% dei votanti si esprime favorevolmente al quesito posto dal governo regionale. La vittoria del SI impegna l’esecutivo di Banja Luka, piccola ma graziosa capitale della Sprska, a riconoscere il 9 gennaio come festa nazionale dei serbi di Bosnia, il che in pratica vuol dire come quella presieduta da Dodik altro non è che la Repubblica erede di quella di Karadzic, condannato a marzo dal tribunale de L’Aja per il massacro di Sebrenica.Una data considerata ‘tabù’ per i bosniaci, è adesso (o perlomeno aspira a diventare ad esserlo) festa per i serbo – bosniaci; non a caso da Sarajevo si levano in queste ore solo note di biasimo e parole volte a non riconoscere l’esito del referendum. Al contrario invece, da Banja Luka il presidente Dodik esulta e parla di risultato storico per il suo popolo che adesso può avere un giorno interamente dedicato alla celebrazione della propria autonomia.In tanti già parlano di un primo passo per la secessione; le divergenze e le spaccature tra la comunità bosniaca e quella serba, potrebbero diventare insanabili e far propendere la Sprska a dichiarare la propria indipendenza oppure la volontà dei serbi di tornare nell’orbita di Belgrado. In tal senso, forse la direzione intrapresa da Dodik è proprio questa ma al contempo non è detto che essa venga applicata nell’immediato, anche perché gli stessi cugini di Belgrado non vogliono al momento avere situazioni che possano creare tensione con i paesi vicini e soprattutto con l’Unione Europea; ad ogni modo, tanto l’esito del referendum quanto i contrasti e le tensioni crescenti tra le due entità territoriali della federazione bosniaca dimostrano la fragilità dello schema adottato a Dayton nel 1995, al contempo le velleità dei serbi di Bosnia rivelano ferite e contrasti mai risolti in questi anni da ambo le parti: da 21 anni a Sarajevo è terminata la guerra, ma non è mai scoppiata la pace.
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