Nel confronto tra Hillary Clinton e Donald Trump, sino ad ora, le politiche economiche programmate dai due candidati non hanno ricevuto uno spazio adeguato alla loro importanza e al loro impatto potenziale sull’evoluzione futura degli Stati Uniti d’America.LEGGI ANCHE: Elezioni Usa: la posta in giocoL’andamento stesso della campagna, infatti, ha fisiologicamente penalizzato la componente maggiormente “partitica” dell’agenda programmatica dei contendenti intenti a una sfida profondamente personale. L’aspra e ruvida dialettica sviluppatasi tra la Clinton e Trump, infatti, ha lasciato poco spazio all’esposizione di programmi ampi e complessi come quelli economici, nel cui sviluppo entrambi i candidati hanno recepito in misura maggiore rispetto ad altri temi gli stimoli provenienti dai propri partiti o dalle proprie basi elettorali. Nonostante l’attenzione dell’opinione pubblica e del sistema mediatico sia stata catalizzata, nei pochi spazi lasciati liberi dallo scontro frontale Trump-Clinton, principalmente da materie come la sicurezza e la politica estera, la politica economica rappresenta un tema di importanza cruciale nell’attuale corsa alla Casa Bianca.Nonostante i dati macroeconomici connessi al prodotto interno lordo testimonino come gli Stati Uniti abbiano oramai assorbito gli effetti distorsivi più evidenti della Grande Crisi del 2007, il sistema americano possiede numerose imperfezioni interne: i recenti dati hanno evidenziato una crescita del PIL nel secondo trimestre del 2016 inferiore notevolmente alle aspettative (si è registrato un +1,2% contro il 2,6% atteso) e, soprattutto, sussistono numerose incertezze per la difficoltà riscontrate dal sistema economico Usa nella creazione di posti di lavoro. Gli Stati Uniti, ora più che mai, non devono abbassare il livello di guardia del loro sistema economico: gli interventi della prossima amministrazione dovranno essere oculatamente programmati e ben strutturati se vorranno contribuire a correggere le problematiche che tutt’oggi interessano l’economia a stelle e strisce.I pilastri della TrumpnomicsCome detto a più riprese nei due capitoli precedenti dell’analisi riguardante i programmi di politica estera degli aspiranti presidenti che si disputeranno la Casa Bianca nelle elezioni dell’8 novembre, numerose questioni internazionali erano lette da Donald Trump attraverso l’analisi delle potenziali ripercussioni che i loro sviluppi potrebbero causare sull’economia statunitense.Il programma economico che Trump ha sviluppato in vista delle prossime elezioni incamera al suo interno numerosi cavalli di battaglia tradizionali del mondo conservatore statunitense, ma al tempo stesso risente anche dell’influenza delle pulsioni prevalenti nel suo bacino elettorale alla base del Grand Old Party. Esso è composto in maniera preponderante da membri della middle class duramente provati dagli effetti a lungo termine della Grande Recessione, sui quali Trump ha saputo fare presa nel corso dell’intero ciclo delle primarie repubblicane. Lo slogan stesso della campagna elettorale di Trump, Make America Great Again!, richiama l’idea di una grandezza che sia in primis di natura economica e che gli Stati Uniti potrebbero conseguire nuovamente, secondo il candidato repubblicano, solo ricostruendo la produttività e la competitività interna dell’industria americana.LEGGI ANCHE: La politica estera di Trump e Cliton a confrontoAndando in controtendenza rispetto al percorso tracciato dalle ultime amministrazioni, infatti, Trump propone un rilancio dell’occupazione nazionale attraverso lo sviluppo di un piano di ricostruzione dell’industria manifatturiera statunitense, che dal 1998 a oggi ha perso più del 34% degli addetti.La creazione di posti di lavoro comporterebbe un ritorno massiccio dei centri produttivi delocalizzatisi nel tempo in diversi Paesi del mondo, principalmente Cina e Messico, nazioni che rappresentano infatti i principali bersagli degli strali di Trump durante i suoi interventi in tema di economia. Per difendere i prodotti statunitensi contro quelli provenienti dai due Paesi in questione, la proposta di Trump e del Partito Repubblicano prevede l’introduzione di tariffe doganali elevate, pari addirittura al 35% del valore delle merci nel caso dei beni provenienti dal confine meridionale degli Usa. Per incentivare le imprese ad aumentare gli investimenti negli Usa, Trump prevede sforbiciate alla corporate tax e non ha messo in agenda interventi destinati all’aumento del salario minimo di 7,25 dollari orari al fine di mantenere competitivo dal loro punto di vista il costo del lavoro.LEGGI ANCHE: Quale futuro per la Nato dopo le elezioni in America?Un incremento dei consumi interni, secondo Trump, si produrrebbe a seguito del rilancio della produzione di beni sul suolo nazionale e delle influenze che il mutato equilibrio dei rapporti economici con la Cina produrrebbe nel rapporto yuan/dollaro: rafforzando indirettamente il valore della valuta cinese rispetto a quella statunitense, la competitività dei prodotti americani aumenterebbe rispetto a quelli provenienti da oltre Pacifico, e ciò causerebbe un’ulteriore accelerazione nel processo di crescita aggregata generalizzata.In ogni caso, l’effettiva tenuta del sistema ideato da Donald Trump è ben al di là dall’essere dimostrata in partenza: a suscitare perplessità, infatti, è la particolare focalizzazione del candidato repubblicano sulla contrapposizione con la Cina dal punto di vista macroeconomico, monetario e commerciale, che viene propugnata a scapito della considerazione delle numerose partnership strategiche oggigiorno esistenti tra Pechino e Washington. Degli approcci di Trump alla politica dei trattati commerciali portata avanti da Barack Obama si è diffusamente parlato del precedente capitolo; per quanto riguarda l’approccio del candidato repubblicano alla materia degli scambi internazionali, Trump ha più volte propugnato il suo sostegno allo smart trade (“commercio intelligente”), sostenendo in alcuni settori, come visto, misure protezionistiche ma al tempo stesso, in maniera molto pragmatica, non ritenendo opportuno una loro estensione generalizzata. La grande dipendenza di numerose industrie statunitensi da una catena logistica strutturatasi su base internazionale, infatti, scoraggia di compiere passi indietro in settori del mondo commerciale strategici per l’economia Usa.Unitamente al rilancio degli investimenti infrastrutturali, il piano industriale di Trump prevede, stando alle dichiarazioni del candidato, la creazione di milioni di posti di lavoro nel prossimo decennio e mira a implementare l’espansione dell’economia USA e del benessere nazionale. Al tempo stesso, una crescita costante e generalizzata fornirebbe il retroterra ideale per presentare un piano di riduzione fiscale volto all’abbassamento dell’aliquota massima al 33% per i redditi superiori a 154.000 dollari all’anno e all’estensione della fascia esente da imposizione a tutti i redditi inferiori a 29.000 dollari. Il programma fiscale di Trump è stato sviluppato dopo un lungo confronto tra il candidato e numerosi portavoce congressuali del Partito Repubblicano: di fatto, esso rappresenta uno dei pochissimi punti su cui non vi siano state accanite discussioni interne alla formazione conservatrice statunitense, nella quale l’opinione dominante è favorevole a una riduzione del carico fiscale che grava sui cittadini statunitensi.Le proposte della ClintonHillary Clinton non ha mai fatto mistero di puntare, in caso di elezione, a un programma di investimenti strutturato ai fini di incentivare una crescita del prodotto interno lordo statunitense sin dai primi mesi del suo mandato. Un programma denominato National Infrastructure Plan avrebbe il compito di allocare nel corso dell’amministrazione Clinton 275 miliardi di dollari destinati a venire investiti per la costruzione di autostrade, ponti, aeroporti, ferrovie e reti di comunicazione a distanza o per garantire la manutenzione di quelli già esistenti; al tempo stesso, la Clinton ha proposto il varo di un Energy Plan basato su uno stanziamento annuo di 9 miliardi per lo sviluppo di investimenti competitivi nel settore delle energie rinnovabili. Si tratta di piani decisamente ambiziosi e impegnativi, con i quali l’esponente democratica punta a rilanciare un’occupazione rimasta sotto gli standard di un tempo negli ultimi anni, agendo contemporaneamente sul piano retributivo attraverso l’incremento del salario minimo orario oltre i 10 dollari orari.Un altro settore dove la Clinton si è impegnata ad agire in profondità è quello scolastico: il College Affordability Plan vedrebbe il governo federale costituire un fondo da 35 miliardi per il rifinanziamento dei debiti degli studenti universitari, mentre misure ad esso complementari sarebbero implementate al fine di garantire maggiore equità nelle possibilità di accesso ai principali atenei statunitensi.Negli interventi della Clinton, è ritornato in più occasioni il concetto di “fair growth” (“crescita giusta”); nei fatti, l’interessamento della candidata democratica e del suo programma elettorale a tematiche care all’ala sinistra della sua formazione come la redistribuzione del reddito e le disuguaglianze sociali testimoniano una crescita di influenza della corrente facente capo, nel corso delle recenti primarie, a Bernie Sanders. Il Senatore del Vermont, che ha raccolto un numero di delegati decisamente significativo nell’arco delle primarie, ha potuto alla fine influenzare il programma del Partito Democratico in tema di economia: la presa di posizione della Clinton sull’incremento del salario minimo può essere ritenuta un’ulteriore conferma di questo rilevante dato.LEGGI ANCHE: La doppia morale di chi attacca TrumpIn ambito fiscale, il sistema previsto da Hillary Clinton è imperniato su una serie di scaglioni fiscali notevolmente diversi da quelli ipotizzati da Donald Trump: attraverso un meccanismo altamente progressivo che porrebbe il limite di esclusione dalla tassazione ai redditi di 9.000 dollari annui, la tassazione proposta da Hillary Clinton innalzerebbe repentinamente le aliquote per le fasce superiori, colpendo in particolare con un 4% marginale aggiuntivo i redditi sopra i 5 milioni di dollari annui.Per quanto riguarda l’efficacia potenziale del sistema economico made in Clinton, è difficile fare dei pronostici in proposito. L’ampio programma di interventi pubblici lascia presagire un cambio di rotta almeno parziale rispetto all’era Obama, ma al tempo stesso rischia di vedersi diluito troppo in profondità nel tempo e di perdere di efficacia sul lungo periodo proprio a causa della sua fisiologica strutturazione pluriennale. In riferimento ai programmi fiscali e alle aperture alle prese di posizione di Bernie Sanders, entrano in gioco dinamiche interessanti gli assetti di potere interni a un Partito Democratico che, pur presentando un’apparenza di compattezza in confronto alla controparte repubblicana, è nel profondo animato da ideali e visioni politiche altamente contrastanti. Tra questi, la Clinton ha voluto operare un compromesso la cui durata, in ogni caso, è tutta da dimostrare. La stessa ambivalenza tra le politiche dichiaratamente progressiste ed espansive dell’agenda della Clinton in materia economica e l’impronta fondamentalmente conservatrice del suo programma in materia di politica estera rappresenta un elemento peculiare e di difficile interpretazione, che potrebbe costituire un fattore di ostacolo all’azione dell’amministrazione Clinton in caso di vittoria dell’ex First Lady alle elezioni dell’8 novembre.
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