Colpi di Stato in 49 dei 54 Paesi che compongono l’Africa, otto negli ultimi tre anni. Il presidente Emmanuel Macron osserva il tracollo dell’influenza francese nella regione e parla di “un’epidemia di golpe”. La propensione alle prese di potere da parte dei militari sembra connaturata a una fragilità intrinseca dei sistemi di rappresentanza adottati nelle nazioni africane ma quanto il resto del mondo può davvero considerarsi immune al contagio? E se negli Stati Uniti, Russia e Cina, super potenze ritenute relativamente stabili, stessero già maturando le condizioni per un drammatico sconvolgimento politico? 

Stati Uniti

Solo dieci anni fa inserire l’America in un’analisi dei Paesi a rischio golpe sarebbe stata una scelta degna di un racconto di fantapolitica. La presidenza Trump ha però stravolto tale considerazione sottoponendo la stabilità della democrazia a stelle e strisce ad uno stress test senza precedenti nell’epoca moderna. Per una buona parte dell’amministrazione del tycoon tre generali hanno ricoperto il ruolo degli “adulti nella stanza” cercando di porre un freno ai peggiori istinti del presidente. Il triumvirato composto da Jim Mattis, segretario alla difesa, John Kelly, capo di gabinetto, e H.R. McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale, ha contribuito a moderare alcune scelte politiche e a rassicurare, per quanto possibile, il fronte interno e gli alleati. Non è un caso che la loro uscita di scena abbia contribuito a liberare i peggiori istinti del miliardario nella parte finale del suo mandato. 

L’epidemia di Covid-19 e la campagna elettorale del 2020 hanno spinto Trump ad abbracciare le teorie più oscure del complottismo. Il voto per posta era stato denunciato in anticipo dal presidente repubblicano come lo strumento che Joe Biden e il partito democratico avrebbero usato per “rubare” la Casa Bianca all’unico possibile e legittimo vincitore. In questo senso l’assalto al Congresso compiuto il 6 gennaio 2021 dai sostenitori del candidato sconfitto ha rappresentato uno choc al sistema non del tutto inatteso. 

In quella circostanza la democrazia americana ha retto ma le elezioni del 2024 con una possibile ripetizione dello scontro tra gli stessi candidati della tornata elettorale precedente e l’aumento della polarizzazione politica rappresentano un nuovo momento critico per gli Stati Uniti. Che le forze armate siano in allerta lo dimostra l’editoriale pubblicato nel 2021 sul Washington Post dai generali Paul Eaton, Antonio Taguba e Steven Anderson. “Siamo terrorizzati al pensiero che la prossima volta un colpo di Stato possa andare a buon fine” dichiarano i militari ricordando anche la presenza preoccupante di veterani e membri dell’esercito tra gli assalitori del Campidoglio. È ragionevole, pertanto, ipotizzare che il Pentagono stia organizzando war games per non farsi cogliere impreparato. 

Russia

L’état c’est moi. Questo è l’assunto su cui Vladimir Putin ha costruito il suo potere negli ultimi due decenni cooptando esercito e oligarchi al servizio di un unico progetto trumpiano ante litteram: rendere di nuovo grande la Russia. Il presidente russo ritiene infatti che la dissoluzione dell’Unione Sovietica sia stata la più importante catastrofe geopolitica del secolo scorso e considera gli anni Novanta di Boris Eltsin come uno dei periodi più umilianti della storia del Paese. 

Sino ad ora Putin gode di un forte consenso popolare non tanto per le performance economiche quanto per la ricostituzione di un sentimento di orgoglio nazionale legato alle spericolate iniziative di politica estera. In particolare, la guerra in Ucraina rappresenta la sfida su cui il presidente russo si gioca un posto nei libri di storia e per la quale si fida solo di tre consiglieri: Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Caterina la Grande. 

La sua immagine di invincibilità è però andata in frantumi il 23 giugno 2023 con il tentato ammutinamento compiuto dal capo della Wagner Evgeny Prigozhin. L’avanzata in direzione di Mosca è proseguita indisturbata per centinaia di chilometri mettendo in luce la confusione interna alle forze armate e svelando alcune crepe al sostegno nei confronti del nuovo zar. Il presidente russo ha legato il proprio destino a quello della guerra d’aggressione contro Kiev. La stabilità del regime dipenderà quindi da ciò che accadrà sul campo e da come tali eventi si rifletteranno sulla classe degli oligarchi colpita dalle sanzioni occidentali. Un’eventuale congiura al Cremlino potrebbe avere successo solo se l’esercito capirà di poter prendere le parti di un uomo più forte di Putin. 

Cina 

Dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese numerosi sono stati i momenti di tensione che hanno lasciato immaginare un possibile crollo dello stato. La transizione da Paese sottosviluppato al raggiungimento dello status di gigante economico ha generato notevoli tensioni sociali le quali sono state gestite con il pugno di ferro dalla dirigenza del Partito comunista. La strage di piazza Tienanmen del 4 giugno 1989 ha messo fine alla più importante richiesta di libertà e democrazia da parte della popolazione e rappresenta tuttora il frangente storico in cui si è andati più vicino ad uno stravolgimento politico in Cina. 

Al contrario di quanto successo in Russia, Pechino ha puntato sino a pochi anni fa solo sullo sviluppo economico garantendo panem et circenses attraverso tassi di crescita del Pil superiori a quelli dei Paesi occidentali e ospitando le Olimpiadi nel 2008, una perfetta vetrina del successo cinese. Con la nomina a presidente di Xi Jinping nel 2013, si è però fatta strada una politica estera più muscolare pronta in primis ad allargare la propria influenza nel Mar Cinese Meridionale e a respingere la presenza degli Stati Uniti nella regione. L’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong e l’aumento della pressione sull’isola “ribelle” di Taiwan sono altre imprescindibili manifestazioni del risveglio del dragone. 

È difficile per gli analisti cogliere segnali di sommovimenti interni al regime cinese. Le voci più recenti di un colpo di Stato risalgono all’anno scorso quando al Falun Gong, gruppo religioso messo al bando dalle autorità, è stata attribuita la diffusione di fake news sulla destituzione del presidente. In realtà i pericoli più concreti per Pechino sono legati alle conseguenze della gestione della pandemia. La strategia di soppressione totale del Covid-19, abbandonata solo alla fine dell’anno scorso, ha comportato restrizioni alla libertà personale senza precedenti anche per un Paese come la Cina. Secondo stime non ufficiali, l’impatto della libera circolazione del virus su una popolazione non sufficientemente vaccinata avrebbe causato la morte di milioni di persone. Al dramma umano si aggiunge un rallentamento dell’economia che rischia di diventare il vero tallone d’Achille per Xi Jinping. Al netto di un’accelerazione dei piani d’invasione di Taiwan con esiti ancora più incerti rispetto alla guerra in Ucraina, al momento le vere minacce al predominio del Partito Comunista potrebbero quindi arrivare da un’esplosione incontrollata del malcontento popolare. In quel caso non è detto però che “l’opzione Tienanmen” sarà in grado di risolvere il problema. 

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