L’anno scorso erano i primi a criticare Donald Trump per aver spostato l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme; oggi che potrebbero far sentire la loro voce e inserire in cima all’agenda politica il tema del ritorno della sede diplomatica Usa nella città di origine, sono trincerati dietro un silenzio di tomba. Stiamo parlando dei candidati del Partito democratico americano alle elezioni presidenziali del 2020. Chi più chi meno, tutti hanno scagliato almeno una pietra addosso a Trump, definendo la sua scelta un azzardo, rischiosa per l’incolumità del Medio Oriente, vergognosa, una provocazione e via dicendo. Eppure, ora che fra i Dem è in atto la sfida per aggiudicarsi le primarie, nessuno ha il coraggio di nominare Israele.

Il doppio gioco dei democratici

I principali candidati Democratici in corsa per le presidenziali del 2020 non sentono più la necessità di riportare l’ambasciata statunitense in Israele da Gerusalemme a Tel Aviv. A inchiodare i rivali di Trump c’ha pensato il sito americano Axios, che ha raggiunto le più importanti personalità del Partito Democratico mettendoli davanti a questa domanda indiretta: riportereste l’ambasciata a Tel Aviv? Le risposte lasciano alquanto perplessi: Joe Biden ha detto che no, non trasferirebbe la sede diplomatica da Gerusalemme; altre personalità, come Cory Booker, Amy Kloubuchar, Kristen Gillibrand, Beto O’Rourke e Pete Bittigieg si sono uniti al coro. Infine c’è anche chi si è rifiutato di esprimere un’opinione in merito: Kamala Harris, Bernie Sanders, Julian Castro ed Elizabeth Warren, che pure avevano criticato duramente Trump al momento del trasloco, si sono trincerati dietro a un silenzio di tomba.

La posizione dei candidati democratici sull’ambasciata Usa in Israele

Un portavoce di Biden ha dichiarato che “il vicepresidente non sposterebbe l’ambasciata americana a Tel Aviv ma riaprirebbe il consolato a Gerusalemme est per coinvolgere i palestinesi”. Che fine ha fatto la precedente battaglia contro la scelta di Trump? Booker, un altro candidato, a suo tempo si era inizialmente opposto a The Donald perché credeva che una simile mossa “sarebbe dovuta rientrare in un più ampio processo di negoziazione. Ma ora che l’ambasciata è stata spostata – prosegue il Democratico – non vedo come spostarla indietro”. Gillibrand, invece, sostiene che la mossa politica di Trump è giusta ma che “è arrivata in un momento sbagliato”. La senatrice Warren, una che parlò di “pace compromessa” tra Israele e Palestina per colpa di Trump, non ha rilasciato dichiarazioni.

La coerenza di Trump

Israele, aggiunge Limes, è un tema scottante per ogni candidato ed è un Paese ancor più difficile da criticare a maggior ragione per chi ambisce a un posto alla Casa Bianca. Un conto è attaccare Trump su Israele quando non c’è niente da perdere, se non minare l’immagine del tycoon; un altro è farlo rischiando di danneggiare la propria. È per questo motivo che tra i Democratici ogni dubbio o opposizione su Israele deve restare ben lontana dal dibattito pubblico, nascosta sotto una montagna di altre tematiche politiche. Tornando al trasferimento dell’ambasciata, se un candidato democratico sostenesse pubblicamente il ritorno della sede diplomatica Usa a Tel Aviv rovinerebbe di colpo la sua carriera, perdendo l’appoggio dei tanti circoli a sostegno di Israele. Trump, a differenza dei democratici, sullo Stato Ebraico si è rivelato coerente.

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