Olanda, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia: il fronte dei super-rigoristi in Europa oramai è compattato attorno a queste cinque nazioni, i quattro falchi per eccellenza della “Nuova lega anseatica, in cui l’Irlanda e i baltici sono passati su posizioni meno rigide, a cui si aggiunge Vienna, che vede nella vigilanza costante sui conti pubblici (altrui) il viatico per inserirsi nelle grandi strategie europee.

Una delle più incredibili capacità del premier olandese Mark Rutte è la sua abilità nel costruire, in qualsiasi occasione, alleanze funzionali ai suoi progetti politici. E così l’Olanda, alla guida del fronte del rigore, anche di fronte alla pandemia di coronavirus e al conseguente, simmetrico choc economico che sta sconvolgendo l’Europa è riuscita a difendere la linea pro-austerità e ostile a massicci piani di investimento e ripresa comune senza restare isolata.

Ottenuto il Meccanismo europeo di stabilità nel pacchetto di misure di risposta alla crisi, l’Olanda e i suoi alleati proseguono imperterriti nel ridurre il gradiente di solidarietà intereuropea e nell’inserire i principi della responsabilità di bilancio nella Recovery Initiative annunciata dalla Commissione e fino ad ora rimasta solo sulla carta. L’Unione Europea puntava inizialmente, per ammissione della presidente della Commissione Ursula von der Leyena mobiltiare oltre mille miliardi di euro da agganciare al bilancio comunitario per il 2021-2027, ma i falchi del rigore hanno ripreso da dove avevano concluso a febbraio, ovvero sabotando l’accordo per il finanziamento pluriennale dell’Unione.

Ma non solo questi Paesi si muovono per indebolire la futura risposta europea, nota il Corriere della Sera. Essi “tornano anche a scucire quanto già tessuto. In questi giorni sono intenti a ridurre il celebrato programma di garanzie per 200 miliardi della Banca europea degli investimenti in un piano che in realtà ne vale appena cinque, in un’ economia da 13 mila miliardi: esigono che le garanzie effettive della Bei (di fatto per 25 miliardi su 200 di investimenti) non possano essere intaccati che in minima parte”. Torna il calcolo spericolato già manifestatosi nel rifiuto aprioristico agli eurobond, ovvero l’accarezzamento dell’ipotesi di poter separare i propri destini economici da quelli del Sud Europa? A pensare male si fa peccato ma molto spesso si azzecca.

Sul medio periodo, il ridimensionamento del fondo per la ripresa comune sarà confermata perchè questi cinque Paesi, che assieme fanno un decimo della popolazione e un sesto del Pil dell’Unione, hanno un potere di condizionamento estremamente elevato. La loro richiesta sul fondo di coesione è che non superi i 250 miliardi di euro, una quota che secondo Italia, Francia, Spagna dovrebbe essere piuttosto destinata ai soli trasferimenti a fondo perduto.

E non solo: i cinque falchi hanno ridotto a un quinto dell’idea iniziale, da 250 a 50 miliardi di euro, la portata del fondo InvestEu, “il fondo europeo per investimenti di capitale in aziende europee considerate ridotte dalla pandemia sull’orlo del fallimento” che dovrebbe agire tramite garanzie Bei.

Pur rifituando il discorso del “più Europa”, è chiaro che la presenza di determinati strumenti anti-crisi a livello comunitario può essere un bene solo se si ha la volontà politica di farli agire in maniera coerente e complementare. I super-falchi mirano a ingarbugliare, dividere e dimidiare la capacità europea di risposta: il loro vero timore è evitare che nel continente psosano emergere potenziali minacce all’export che rappresenta il punto focale delle loro economie e alla loro ideologia liberista e ostile all’intervento pubblico e collettivo nell’economia. Sfugge a questi Paesi che il calcolo di evitare gli effetti di una recessione è fallace: e che la loro stessa posizione contrattuale si indebolirebbe se l’intera Europa precipitasse in una recessione senza precedenti.