Forse a questo punto la questione non riguarda più il “se”, ma semplicemente il “quando”. Khalifa Haftar è destinato ad arrivare a Tripoli, ad essere l’uomo forte anche della Tripolitania e non solo della “sua” Cirenaica. Lo si evince dalle nuove evoluzioni sul campo, da quelle all’interno delle stanze della diplomazia e da un’esigenza, sempre più avvertita dalla popolazione, di rivedere finalmente una Libia stabile e sicura. Ed al momento attuale appare soltanto Haftar l’uomo in grado, almeno militarmente, di riunificare l’intero territorio libico. Se ne sono accorti anche alcuni attori sia esterni che interni fondamentali per il passato ed il futuro del paese africano: l’Italia e le tribù. 

Haftar pronto a siglare un patto con le tribù? 

Non costituiscono certamente mistero le velleità di Haftar. Il generale non si accontenta della sola Cirenaica, il suo obiettivo è essere autore e guida della nuova Libia riunificata. Per farlo però, non può contare solo sul suo esercito. Tante le insidie, a partire dalle milizie islamiste, che possono rallentare se non ostacolare del tutto l’avanzata di Haftar verso Tripoli. Del resto è bene anche considerare che il suo esercito da quattro anni è in guerra nell’ambito della cosiddetta “operazione dignità“, dunque i suoi uomini appaiono sfiancati da battaglie che dal 2014 hanno portato alla riconquista di importanti città in mano agli islamisti, Bengasi su tutte. Per arrivare nel cuore della capitale libica, Haftar deve fare “breccia” nelle milizie tripoline. Deve cioè cercare alleati in Tripolitania tra gruppi e tribù che possono aiutarlo a controllare il territorio. E forse l’escalation della Settima Brigata di fine agosto, che ha dato il via agli scontri di Tripoli, si può leggere in questa ottica. Haftar ha ottimi rapporti con la tribù di Tahrouna, la cittadina a sud di Tripoli in cui ha sede la Settima Brigata, così come con le milizie di Zintan. Proprio loro potrebbero dare l’ultima spallata ad Al Serraj. 

Ma non solo: a sud di Tripoli vi è Bani Walid, centro di riferimento per la tribù dei Warfalla, la più numerosa ed importante dell’intera Libia. I Warfalla sono sempre stati vicini a Gheddafi, ma una parte di questa tribù nel 2011 ha scaricato il rais e questo ha inciso nei rapporti di forza della lotta tra lealisti e ribelli. Oggi però gran parte dei Warfalla sembrano essere poco in linea con il governo di Al Serraj, quello cioè che ufficialmente dovrebbe controllare almeno la Tripolitania. In questa ottica, i Warfalla potrebbero decidere di sostenere Haftar od almeno non ostacolare eventuali sue avanzate. Con loro, anche altri tribù potrebbero quindi decidere di dare il disco verde al generale della Cirenaica. Haftar ha bisogno delle tribù, ma anche le tribù iniziano ad avere bisogno di Haftar. Persino loro, che da sempre compongono l’ossatura della società libica, non riescono a tenere a bada la popolazione in uno stato di conflitto perenne ed oramai cronicamente latente. 

Un reciproco interesse dunque, che a breve può anche portare ad un vero e proprio matrimonio d’interesse. Diversi segnali vanno in questa direzione, a partire dalle dichiarazioni di martedì del portavoce di Haftar: “Formeremo – afferma Ahmed al Mesmari – un fronte militare nella regione occidentale dopo aver preso il controllo di alcuni punti importanti”. Una dichiarazione in cui il fronte di Haftar inizia a sbilanciarsi, con l’obiettivo palese ed esplicito di creare un forte gruppo in Tripolitania che comprenda evidentemente fazioni e tribù pronte a saltare sul carro del generale della Cirenaica. 

E l’Italia? 

Lo stesso discorso inerente i rapporti tra Haftar e le tribù, è possibile farlo anche per quanto concerne i rapporti tra Haftar e l’Italia. Il generale ha bisogno di Roma, Roma ha bisogno del generale. La visita di Moavero a Bengasi dei giorni scorsi lo dimostra. Il nostro ministro degli esteri, spinto anche dal rinvigorito rapporto tra Italia ed Egitto (sponsor principale di Haftar), nell’incontro con il generale ha illustrato i piani futuri del nostro paese per la Libia chiedendo garanzie all’attuale leadership della Cirenaica. Si punta, in particolare, alla questione legata all’immigrazione ed al successo del summit per la Libia che l’Italia vuole organizzare nel mese di novembre in Sicilia. Su entrambi i fronti, Haftar avrebbe mostrato un atteggiamento di collaborazione. Roma ha quindi inglobato il generale tra gli attori con cui dialogare per il futuro e senza il quale si rischierebbe di ledere i vistosi interessi energetici del nostro paese. Ma anche Haftar, da sempre considerato più vicino a Macron, non vuole lasciare l’Italia fuori dalla Libia. 

La ricostruzione del paese, la ripresa dei rapporti diplomatici con le nazioni del Mediterraneo, il ristabilimento della sicurezza e dell’ordine in Libia sono tutti elementi che non possono essere attuati senza l’aiuto dell’Italia. Ecco perché Roma ed Haftar hanno reciproci interessi e nessuno può lasciare fuori l’altro. Ed ecco perché dunque, molto probabilmente, anche l’Italia avrebbe poter già dato il proprio benestare all’arrivo di Haftar direttamente a Tripoli. Per Al Serraj sarebbe già pronto un salvacondotto o, quanto meno, un’onorevole uscita di scena. Del resto anche le parole dell’inviato speciale dell’Onu in Libia, Ghassan Salamé, non sono più molto tenere verso Al Serraj: “Non possiamo più accettare di vedere la rovina di Tripoli davanti ai nostri occhi”, sono le sue frasi rivolte all’attuale premier libico nel corso di un’intervista per un’emittente giordana. Segno che anche l’Onu ha già messo in conto la fine politica del governo Al Serraj. 

Come detto ad inizio articolo, adesso il problema non è più se Haftar riesce o meno nell’intento di prendere Tripoli, ma quando. E non è però una domanda secondaria: il generale aspetterà i tempi dell’Onu (e dell’Italia) oppure agirà il prima possibile manu militari forte di un eventuale sostegno delle tribù? La risposta a questo interrogativo contiene forse la chiave del futuro prossimo della nostra ex colonia. 

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