La crisi tra Donbass e Mar Nero è rientrata, nonostante le previsioni catastrofistiche di stampa generalista e parte di quella specializzata. La Russia non era alla ricerca di un confronto aperto, ma di negoziazione a mezzo di una crisi controllata. Non follia bellicista, ma rischio calcolato. Partita terminata e potere negoziale accresciuto, il Cremlino, adesso, è pronto a sedersi al tavolo delle trattative con Ucraina e Stati Uniti – da qui l’impulso ai lavori per la bilaterale Putin-Biden.
La presidenza Zelensky, che nel mese di aprile ha realizzato che gli alleati occidentali non sembrano disposti a varcare quella linea rossa chiamata Donbass, ha iniziato a lanciare dei segni conciliativi in direzione della controparte russa, sebbene non sia dato sapere né dove né quando, e neanche se, potrebbe tenersi un vertice. Quel che è noto, però, è che il Marinskij ha estratto i propri assi dal mazzo, ovvero Vaticano e Israele, con lo scopo precipuo di incoraggiare il Cremlino a ponderare l’eventualità di un incontro chiarificatore.
Le ragioni del coinvolgimento della diplomazia pontificia nella questione Donbass non sono per nulla nebulose: la Chiesa cattolica vanta una presenza capillare e pervasiva in Ucraina, visitata nel 2016 da Pietro Parolin, tema ricorrente dei sermoni papalini e dei colloqui con i capi di Stato e teatro di una vasta e sfaccettata campagna umanitaria portata avanti da Caritas, diocesi ed altre entità cattoliche – oltre un milione le persone aiutate dal 2016 al 2018.
Meno conosciuti al pubblico, invece, i moventi conduttori alla base del tentato asse con Israele, dove Volodymyr Zelensky ha invocato l’intercessione di Benjamin Netanyahu presso il Cremlino.
Zelensky chiama Netanyahu
Zelensky non ha chiesto soltanto ed esclusivamente l’intercessione della Santa Sede nel dopo-crisi di aprile: ha contattato anche Benjamin Netanyahu, il longevo ed influente primo ministro israeliano. La notizia è stata filtrata direttamente dal capo dell’ambasciata ucraina in Israele, Yevhen Korniychuk, nel corso di un’intervista trasmessa il 22 aprile sul canale televisivo israeliano i24News.
L’ambasciatore ha informato il pubblico del fatto che Zelensky avrebbe chiesto a Netanyahu di intercedere presso Putin, per via del rapporto cordiale intercorrente tra i due, ai fini della materializzazione di una bilaterale e del raggiungimento di un accordo sul Donbass.
Netanyahu, che, secondo Korniychuk, ha accettato l’onere ed onore ricevuto dal collega ucraino, spiegandogli che avrebbe fatto “del suo meglio” per persuadere il presidente russo, è stato raggiunto per una ragione specifica: è correligionario di Zelensky, ovvero è di fede ebraica. Non illazioni attinenti alla fantapolitica, ma fatti utili a comprendere quale sia l’ascendente esercitato dal sacro sulle relazioni internazionali e, nel caso specifico, il ruolo del fattore ebraismo nelle relazioni tra Russia, Ucraina e Israele.
Il peso del fattore Israele
Non è la prima volta che la diplomazia ucraina tenta di costruire un ponte con Israele, casa storica del popolo ebraico, facendo leva sull’elemento della comunanza religiosa tra i capi di Stato. Di un possibile asse per la pace nel Donbass, foggiato giust’appunto sul fattore giudaismo, si erano fatte illazioni già nel 2019 – quando l’Ucraina era divenuta il secondo Paese al mondo, dopo Israele, ad avere sia un presidente sia un primo ministro (Volodymyr Groysman) di fede ebraica.
Le due diplomazie, all’epoca, avevano preso contatti, nella piena consapevolezza dell’irripetibile opportunità, ma senza che si concretasse alcun asse Kiev-Gerusalemme proteso verso Donbass e Mosca. All’esperienza dirigenziale nelle alte sfere della politica ucraina, del resto, sarebbe sopravvissuto soltanto Zelensky, ancora oggi in carica e il cui partito, Servitore del Popolo (Слуга народу), ha registrato un brusco calo di consensi alle elezioni locali dello scorso anno.
Il fattore Israele rientra in questo quadro generale di calcolo politico e necessità strategica: è una carta che Zelensky può e deve giocare, per la propria sopravvivenza e per il benessere dell’Ucraina, e Netanyahu è realmente quel re taumaturgo che potrebbe fare breccia nel Cremlino. Le ragioni di Zelensky possono essere comprese mediante i numeri del rapporto tra cancellerie, ben dodici gli incontri tra Netanyahu e Putin fra il 2015 e il 2019, dell’ebraicità dell’Ucraina, dove si trova una comunità giudaica di circa 400mila persone, e della “russità” di Israele, dove un abitante su cinque ha origini russe (il 20% della popolazione totale) e dove il russo è la terza lingua più parlata a livello nazionale.
Tale è la commistione che, due anni or sono, il congresso annuale del Keren Hayesod, l’antica istituzione che si occupa del finanziamento di Israele e del sionismo mondiale, era stato organizzato a Mosca e vi aveva partecipato Putin. Il capo del Cremlino aveva colto l’occasione per definire Israele un’estensione del mondo russo e le due nazioni come parte di una “famiglia comune”.
Presenta delle fondamenta solide ed un potenziale plausibilmente elevato, dunque, la visione tutt’altro che illudente di Zelensky di un’utilizzazione a fini politici della propria identità religiosa. Perché la storia ha voluto che l’attuale capo del Marinskij e l’inquilino del Beit Aghion fossero fratelli di fede e che il popolo ebraico trovasse nella Terza Roma una seconda casa, ivi stanziandosi più di millecinquecento anni or sono, trasformando Israele in un’appendice del Russkij Mir.
Anche nel caso in cui l’affare Donbass non dovesse andare in porto, come capitato nel 2019, una cosa è più che certa: la svolta Zelensky è destinata a lasciare il segno nella storia delle relazioni tra Ucraina e Israele, due nazioni che, separate dalla geografia, sono state unite dalla progenie di Giacobbe.