Quella che i politologi hanno ribattezzato la competizione tra grandi potenze, che papa Francesco ha definito la terza guerra mondiale a pezzi e che per molti non è che la guerra fredda 2.0, è entrata in una nuova fase: quella delle “periferie al centro“, ovverosia del concentrarsi e/o dell’esplosione di eventi belligeni ai margini degli imperi, tra satelliti, sobborghi e quartieri dormitorio.
I moti di inizio gennaio nell’insospettabile e quieto Kazakistan sono la prova lapalissiana dell’avvenuto mutamento: l’equilibrio si è spezzato, le linee rosse tracciate con l’inchiostro simpatico vengono violate, i cortili di casa sono preda di bande armate che talvolta anelano ad un mero assalto anarchico, tanto violento quanto fine a se stesso, e che altre volte aspirano ad assumere il controllo della proprietà.
In questa nuova fase, fatta di bande corsare che aggrediscono poderi sguarniti, le stesse regole di ingaggio sono mutate. Perché, del resto, anche il gioco è diverso: è a somma zero; chi vince prende tutto. Chi vince determina il fato dell’età multipolare e, dunque, la traiettoria dell’umanità nel 21esimo secolo. Chi perde è condannato ad espiare in purgatorio una pena di durata indefinita. E data la storicità della posta in palio, perché qui si (dis)fa il multipolarismo o si muore, tutto è e sarà lecito per una notte.
Uno sviluppo tanto lento quanto inevitabile
Otto anni. Ci sono voluti otto anni affinché si dischiudesse con forza e chiarezza il processo di sviluppo fisiologico dell’ultimo stadio evolutivo della competizione tra grandi potenze, quello delle periferie al centro. Perché la crisi kazaka di inizio gennaio, lungi dall’essere sintomo di germinazione, non è stata che la manifestazione più evidente di avvenuta allegagione, cioè della maturazione dei frutti. Una crisi imprevidibile fino ad un certo punto, perché se è vero che il diavolo ama celarsi nei dettagli, lasciando tracce (quasi) impercettibili del suo passaggio, lo è altrettanto che il terreno era ricco di briciole. Briciole che attendevano soltanto di essere colte e seguite.
Il centro studi Osservatorio Globalizzazione, che lo scorso dicembre aveva disaminato le briciole disseminate volontariamente o meno dai giocatori della competizione tra grandi potenze, aveva azzardato un pronostico: il 2022 come anno dell’ascesa definitiva dello stadio delle periferie al centro, ovvero al centro di guerre per procura, colpi di stato, sedizioni e/o terrorismo. Un pronostico basato sulla decisione di collegare degli eventi apparentemente separati l’uno dall’altro, accaduti nell’ultimo paragrafo del 2020, tra i quali le rivolte antigovernative in Martinica e Guadalupa, l’insurrezione sinofobica nelle Isole Salomone e l’emancipazione delle Barbados da Buckingham Palace.
L’apertura dinamitardica del nuovo anno, cominciato con l’arrivo di quel “nuovo vento […] particolarmente intenso, a tratti uraganico” nel tranquillo Kazakistan, che è e resta una periferia della russosfera, sembra aver corroborato la previsione: è giunto il momento dei “micro-stati, dei satelliti – inclusi i territori occupati ma privi di riconoscimento internazionale – e degli avanzi dell’epoca coloniale”.
Managua, dove tutto ebbe inizio
Il processo di sviluppo di questo stadio, si scriveva, è durato otto anni. Otto perché è possibile datarne l’inizio nel 2014, anno dell’innesto del seme nel geostrategico Nicaragua – la prima periferia finita nel mezzo della contesa multipolare. Tornare alle origini, scrivere di questo “luogo del destino” in cui tutto è cominciato, è l’unico modo che si ha per cogliere la complessità e l’inevitabilità della centralizzazione delle periferie.
La storia è nota, anche se i più potrebbero non averne memoria: Xi Jinping e Daniel Ortega si erano accordati per la costruzione di un nuovo canale mesoamericano che, in quanto capace di rivaleggiare con Panama, avrebbe potuto aprire una pericolosa breccia nel cuore della Fortezza America e riscrivere la geografia della globalizzazione a detrimento degli Stati Uniti. Trattavasi di un progetto faraonico, epocale, per il quale cinesi, nicaraguensi e altri investitori (russi) erano pronti a mettere sul piatto una cifra astronomica: quaranta miliardi di dollari. Trattavasi, per gli Stati Uniti, di un casus belli.
L’amministrazione Obama, avendo piena cognizione delle peculiarità geopoliticamente sovversive e geoeconomicamente rivoluzionarie dell’anti-Panama, avrebbe dichiarato guerra (coperta) al Nicaragua mettendo in scena un copione già visto e collaudato negli anni: diffusione di anarchia produttiva a mezzo del leveraggio di cellule dormienti e quinte colonne. In sintesi: ambientalisti per bloccare l’apertura dei cantieri e opposizione per trascinare la nazione nella guerra civile.
Entro il 2015, dopo un anno di destabilizzazione continua e massiccia, gli Stati Uniti avrebbero raggiunto il duplice obiettivo dell’intervento in Nicaragua: regime orteguista gravemente indebolito – sopravvissuto a morte certa soltanto grazie alla respirazione artificiale fornita dal Cremlino – e ibernazione del ramo latinoamericano della Nuova Via della Seta – causa la fuga degli investitori cinesi.
La lenta germinazione
La destabilizzazione del Nicaragua si presta ad una varietà di chiavi interpretative, tra le quali la mera applicazione della sempiterna dottrina Monroe da parte della Casa Bianca, ma una cosa è sicura come l’oro: non si può comprendere l’ultima evoluzione della competizione tra grandi potenze ignorandone le origini e senza ripercorrerne il (lungo) percorso di sviluppo.
Dopo il Nicaragua, prima trincea della contesa multipolare, il processo di centralizzazione delle periferie è entrato in una fase di dormizione a causa del focalizzarsi delle grandi potenze su vecchi teatri di scontro – come Europa orientale e Mar Cinese Meridionale – e in settori specifici – come il commercio. Una focalizzazione durata approssimativamente sei anni, dal 2014 al 2020, e durante la quale sia Russia sia Cina hanno assistito alla ripetuta violazione dei loro spazi vitali, come (di)mostrato da Euromaidan, da EuroMinsk, dalle proteste di Hong Kong e dalla militarizzazione dell’Indo-Pacifico.
Testimoni dell’avanzata occidentale all’interno dei loro lebensraum, che ha de facto posto fine all’epoca del rispetto delle linee rosse, Russia e Cina hanno cominciato ad intravedere nell’accensione delle periferie del mondo avanzato l’opportunità di portare il conflitto in casa di Stati Uniti ed Unione Europea. Un’intrusione disturbante tra Mediterraneo e Atlantico come risposta simmetrica alle manovre occidentali tra Artico e Indo-Pacifico. La tagliatura di vene scoperte in via di cicatrizzazione come rappresaglia asimmetrica per uno sgambetto antipatico. Questo è il contesto all’interno del quale sono maturati, ad esempio, la riemersione della questione bosniaca, le mosse cinesi in Guinea Equatoriale, il ritorno in scena del Nicaragua e la tensione nel paragrafo francese della Latinoamerica.
Occhi puntati sulle periferie
Preludio all’imminente e ineluttabile ingresso della competizione tra grandi potenze nello stadio delle periferie è stata la “pioggia di storia” che ha caratterizzato il bimestre del 2021: il ritorno del separatismo tra Martinica e Guadalupa, l’emancipazione delle Barbados da Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, l’adesione del Nicaragua alla politica dell’una sola Cina, l’approdo dei cinesi nell’Atlantico via Guinea Equatoriale e la ribellione sinofobica alle Isole Salomone.
Eventi accaduti nell’arco di sessanta giorni, quando contemporaneamente e quando sequenzialmente, e dotati di carica profetica. Erano briciole da raccogliere. Lampi precorritori di tuoni. Segni premonitori di ciò che sarebbe successo di lì a poco, con l’ingresso del mondo in un nuovo anno: lo scoppio della più vasta delle periferie, il Kazakistan.
Le periferie sono al centro: era stato anticipato dall’inverno del 2021, lo ha dimostrato la sollevazione kazaka e lo ha ammesso Foreign Policy, che mentre il Kazakistan era in fiamme esortava l’amministrazione Biden a “giocare in attacco nel cortile di casa della Cina”, ovverosia a disturbarne i satelliti.
Le periferie sono al centro e questo è un problema: negare l’esistenza di linee rosse e porsi dei raggi d’azione illimitati equivale a decuplicare le possibilità di escalation militari, ad abbassare notevolmente la qualità del dialogo tra i blocchi. L’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva in Kazakistan e i venti minacciosi tra Ucraina e Russia – che potrebbero diventare venti di guerra qualora i due centri non trovassero un accordo sulle periferie – non sono che il principio.
In entrambi i casi, che a destabilizzare una periferia sia il ponente oppure il levante, il fine è sempre il medesimo: si incendia l’edificio per inviare un monito all’intero quartiere, talvolta nella speranza-aspettativa che le fiamme avvolgano l’intero isolato – la dottrina del focolaio applicata alle relazioni internazionali. Incendiare l’edificio Ucraina, ad esempio, avrebbe come esito l’indebolimento dell’isolato Europa ad uso e consumo altrui, in primis della Casa Bianca – rottura della GeRussia, induzione in coma dell’autonomia strategica e molto altro.
Altre volte, invece, si appicca un rogo in cortile per costringere gli inquilini a uscire di casa, approfittando della loro distrazione per compiere azioni a sorpresa in perimetri lasciati senza guarnigione. Occhi puntati sulle periferie, dunque, poiché questo è il loro tempo. Occhi puntati sulle periferie, necessariamente, perché la stessa Europa ne è piena – dal Kosovo all’Ucraina, passando per Bosnia, stati fantoccio come la Transnistria e regioni dall’anima autonomistica come Catalogna e Corsica.