Negli ultimi giorni stiamo osservando una piccola ondata di espulsioni di diplomatici russi in Europa. Non è la prima volta che succede, precisiamo, stante il clima di tensione tra Nato e Russia che si espleta principalmente nella questione ucraina.

A febbraio abbiamo assistito a una prima tornata di espulsioni: Germania, Polonia e Svezia hanno cacciato un diplomatico russo ciascuna in risposta ai provvedimenti simili presi dalla Russia. Il governo russo, infatti, aveva accusato i diplomatici delle tre nazioni europee di aver partecipato alle manifestazioni del 23 gennaio contro l’incarcerazione dell’oppositore Alexei Navalny, e per questo li considerava “persone non grate”.

La grana del caso Navalny

Se la questione può sembrare del tutto peculiare e circoscritta, in realtà il caso Navalny è uno dei principali motivi (o pretesti) di scontro tra Washington e Mosca: il presidente Biden, negli ordini esecutivi della prima ora successivi al suo insediamento, ha apertamente dichiarato di voler perseguire la Russia per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e, in particolare, per le persecuzioni ai danni di Navalny, divenuto il principale oppositore del presidente Putin, anche grazie a una gestione per niente lungimirante del caso da parte del Cremlino.

Navalny, insieme all’Ucraina, alla Bielorussia e agli attacchi cibernetici, fa parte integrante della politica di contrasto statunitense alla Russia e pertanto qualsiasi azione che lo riguardi, anche in Europa, è riconducibile a questa linea politica.

Espulsioni c’erano state, ed in gran numero, anche qualche anno fa, in occasione del tentato omicidio dell’ex spia Sergej Skripal: tra marzo e luglio di quell’anno una lunga lista di Paesi europei (circa trenta), capitanata dal Regno Unito, dalla Francia e dalla Germania, insieme agli Stati Uniti, avevano espulso decine di diplomatici di Mosca. Un modus operandi non straordinario, in quel periodo.

I recenti screzi diplomatici

Tornando a tempi più recenti, gli Stati Uniti hanno improvvisamente deciso di espellere dieci diplomatici russi accusati di aver interferito nelle elezioni presidenziali in favore di Donald Trump il 15 aprile. Una misura condivisa immediatamente da Australia, Regno Unito, Canada e alcuni Paesi dell’Ue che ha fatto da contorno all’elevazione di nuove sanzioni economiche. Immediatamente dopo anche la Polonia ha intrapreso il medesimo provvedimento cacciando tre funzionari russi accusati di “azioni illecite” non meglio specificate.

Mosca ha risposto immediatamente per le rime: dieci diplomatici statunitensi sono stati espulsi il giorno successivo. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha poi suggerito anche che l’ambasciatore in Russia, John Sullivan, torni a Washington per consultazioni, aggiungendo che a otto alti funzionari sarà vietato l’ingresso in Russia. Tra loro, il ministro della Giustizia Merrick Garland, il direttore dell’Fbi Christopher Wray, quello dell’Intelligence nazionale Avril Haines, il segretario alla Sicurezza interna Alejandro Mayorkas, l’ex consigliere di Sicurezza nazionale sotto Trump John Bolton. Lavrov ha anche detto che le Ong che “interferiscono” con la politica di Mosca saranno chiuse e sarà negato alla sede diplomatica Usa di assumere cittadini russi e di terzi Paesi come staff di supporto.

L’azione più eclatante, però, è stata messa in atto dalla Repubblica Ceca. Poche ore fa, il governo di Praga ha deciso di espellere diciotto diplomatici russi in risposta al presunto coinvolgimento di agenti del Gru (Glavnoe Razvedyvatel’noe Upravlenie – il servizio di informazioni militare) e del Svr (Sluzba Vnesnej Razvedki – il servizio di intelligence internazionale) nell’esplosione di un deposito di munizioni avvenuta nel 2014 che ha causato due morti. Questa grave decisione potrebbe portare, secondo indiscrezioni, alla chiusura della legazione russa a Praga.

In Ucraina continua a salire la tensione

Quanto sta accadendo a livello diplomatico tra Occidente e Russia comincia ad assumere tinte fosche. Stiamo assistendo a una vera e propria ondata di espulsioni di “diplomatici” (leggasi spie) che si era vista solo in occasione del caso Skripal, ma ora il contesto internazionale è molto diverso, e per questo quanto accaduto solleva una serie di preoccupazioni.

La situazione in Ucraina non sembra affatto migliorare: Mosca continua a far affluire al suo confine occidentale reggimenti che preleva anche dai distretti più orientali, come quello di Vladivostok. L’Ucraina è a un passo dalla mobilitazione generale e, così come Mosca, accumula truppe ai suoi confini. In Bielorussia, qualche giorno fa, sono stati segnalati movimenti di truppe e mezzi corazzati diretti verso il confine ucraino, mentre nel Mar Nero la Vmf (Voenno-morskoj Flot), la Flotta Russa, sta iniziando un’esercitazione di assalto anfibio con mezzi da sbarco che ha fatto giungere da altri settori, come quello del Caspio, del Mediterraneo e addirittura dal Baltico e da quello della Flotta del Nord, che ha sede tra Murmansk e Severodvinsk.

Gli Stati Uniti, se pur hanno rinunciato a far attraversare il Bosforo a due loro cacciatorpediniere classe Arleigh Burke, mantengono l’allerta molto alta – non solo per quanto riguarda l’intelligence e la ricognizione – e hanno nell’area, insieme alla Nato, tutta una serie di assetti navali, terrestri e aerei a difesa del fianco orientale dell’Alleanza Atlantica, ma sarebbe meglio dire per mettere pressione sul fianco occidentale della Russia e cercare di dissuaderla dall’effettuare azioni militari in Ucraina.

Il rischio di un conflitto a Est

Washington, per voce dei segretari di Stato e alla Difesa, ha avvisato Mosca che se Kiev dovesse essere attaccata interverrà in sua difesa, ma senza specificare in quale modo. La “guerra diplomatica” di questi giorni, che potrebbe essere chiamata una “guerra alla diplomazia”, sembra pertanto essere un segnale inquietante se non della preparazione di un conflitto aperto, della volontà di prendere ogni precauzione qualora un’ipotesi così estrema dovesse concretizzarsi. Certi Paesi della Nato sembra abbiano voluto sbarazzarsi di occhi e orecchie “indiscrete” come misura precauzionale.

Se ci fossimo svegliati oggi dopo un sonno durato qualche mese, guardando all’Ucraina molto probabilmente diremmo che si sta preparando un conflitto aperto, e che manchi solo il pretesto per un attacco. Da ambo le parti, del resto, ci sarebbero valide motivazioni: la Russia per recuperare il Paese che, insieme alla Bielorussia, rappresenta la sua “porta di accesso”; l’Ucraina per mettere fine all’insurrezione nel Donbass e magari per recuperare la Crimea.

Quest’ultimo punto però, se davvero fosse attuato, significherebbe un attacco diretto alla Russia: una vera follia stante i rapporti di forza ed il livello di militarizzazione di quella regione. Del resto è anche poco probabile che la Nato e gli Stati Uniti intervengano direttamente in un eventuale conflitto tra Kiev e Mosca, a meno che non vengano colpiti direttamente assetti dell’Alleanza Atlantica: il sostegno occidentale sarebbe sicuramente logistico e nella catena di approvvigionamento di armamenti.

Paradossalmente questa situazione favorisce proprio Mosca, che sa che l’Ucraina non potrà entrare nella Nato finché ci sarà un conflitto nel Donbass, e, altrettanto paradossalmente, sapere che molto probabilmente l’Alleanza non interverrebbe in caso di conflitto con la Russia, spinge il governo di Kiev a cercare di entrare nella Nato.

La domanda finale è solo una: ci sarà guerra? Difficile dirlo, ma guardando alla scacchiera sembra che quasi tutte le pedine siano state posizionate, mancano solo quelle “navali” rappresentate dalle flotte del Nord e del Baltico, il grosso delle quali, per ora, resta nei porti. Per ora.

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